Concilio di Trento.
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(1563)
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XXV sessione (1563)
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SESSIONE XXIII (15 luglio 1563)
Dottrina vera e cattolica sul sacramento dell’ordine a condanna degli
errori del nostro tempo.
Capitolo I
Il sacrificio e il sacerdozio per divino ordinamento sono talmente
congiunti che l’uno e l’altro sono esistiti sotto ogni legge. E poiché nel
nuovo Testamento la chiesa cattolica ha ricevuto dalla istituzione stessa del
Signore il santo visibile sacrificio dell’eucarestia, bisogna anche confessare
che vi è in essa anche il nuovo e visibile sacerdozio, in cui è stato
trasferito l’antico (354).
Che poi questo sia stato istituito dallo stesso Signore e salvatore nostro,
e che agli apostoli e ai loro successori nel sacerdozio sia stato trasmesso il
potere di consacrare, di offrire e di dispensare il suo corpo e il suo sangue;
ed inoltre di rimettere o di non rimettere i peccati, lo mostra la sacra
scrittura e lo ha sempre insegnato la tradizione della chiesa cattolica.
Capitolo II
Il ministero annesso ad un sacerdozio così santo è cosa divina, fu perciò
conveniente che, per esercitarlo più degnamente e con maggiore venerazione,
nell’ordinata articolazione della chiesa vi fossero più ordini di ministri e
diversi fra loro, che servissero, per ufficio loro proprio, nel sacerdozio, e
fossero così distribuiti, che quelli che fossero stati già insigniti della
tonsura, attraverso gli ordini minori salissero ai maggiori. La sacra
scrittura, infatti, nomina espressamente non solo i sacerdoti, ma anche i
diaconi, ed insegna con parole solenni quello cui si deve sommamente badare
nella loro ordinazione (355). E si sa che fin dall’inizio della chiesa erano in
uso i nomi degli ordini seguenti e i ministeri propri a ciascuno di essi:
suddiacono, accolito, esorcista, lettore, ostiario, quantunque non con pari
grado. Il suddiaconato, inoltre, dai padri e dai sacri concili è considerato
tra gli ordini maggiori; e leggiamo in essi, frequentissimamente , anche quanto
riguarda gli ordini minori.
Capitolo III
Poiché dalla testimonianza della scrittura, dalla tradizione apostolica e
dal consenso unanime dei padri appare chiaro che con la sacra ordinazione - che
si compie con parole e segni esteriori - viene comunicata la grazia, nessuno deve
dubitare che l’ordine è realmente e propriamente uno dei sette sacramenti della
chiesa. Dice, infatti, l’apostolo: Io ti esorto che tu voglia rianimare la
grazia di Dio, che è in te con l’imposizione delle mie mani. Non ci ha dato,
infatti, Dio lo spirito del timore, ma della virtù, dell’amore e della sobrietà (356).
Capitolo IV
Poiché, poi, nel sacramento dell’ordine, come nel battesimo e nella
cresima, viene impresso il carattere, che non può essere né cancellato, né
tolto, giustamente il santo sinodo condanna l’opinione di quelli che
asseriscono che i sacerdoti del nuovo Testamento hanno solo un potere
temporaneo, e che quelli che una volta sono stati regolarmente ordinati,
possono tornare di nuovo laici, se non esercitano il ministero della parola di
Dio.
Se qualcuno afferma che tutti i cristiani, senza distinzione, sono
sacerdoti del nuovo Testamento, o che tutti godono fra di essi di uno stesso
potere spirituale, allora costui non sembra far altro che sconvolgere la
gerarchia ecclesiastica, che è come un esercito schierato a battaglia (357); proprio come se, diversamente da quanto insegna il beato Paolo (358),
fossero tutti apostoli, tutti profeti, tutti evangelisti, tutti pastori, tutti
dottori.
Perciò il santo sinodo dichiara che - oltre agli altri gradi ecclesiastici
- appartengono a questo ordine gerarchico specialmente i vescovi, successori
degli apostoli, che sono posti (come afferma lo stesso apostolo) dallo Spirito
santo a reggere la chiesa di Dio (359); sono superiori ai sacerdoti;
possono conferire il sacramento della cresima, ordinare i ministri della chiesa
e compiere le molte altre funzioni, di cui gli altri di ordine inferiore non
hanno alcun potere.
Insegna, inoltre, il santo concilio, che nella ordinazione dei vescovi, dei
sacerdoti e degli altri ordini non si richieda così necessariamente il
consenso, o la chiamata o l’autorità del popolo o di qualsiasi potestà o
autorità secolare, da render nulla, senza di esse, l’ordinazione. Anzi, quelli
che, chiamati e costituiti solo dal popolo o dal potere e dall’autorità
secolare si appressano ad esercitare questi ministeri, e quelli che se li
arrogano di propria temerità, sono tutti non ministri della chiesa, ma ladri e
rapinatori, che non sono entrati dalla porta (360).
Queste sono le cose che in generale è sembrato bene al santo sinodo
insegnare ai fedeli cristiani sul sacramento dell’ordine. Ed ha stabilito di
condannare quanto contrasta con questi insegnamenti con canoni determinati e
propri come segue, affinché tutti, con l’aiuto di Dio, attenendosi alla regola
della fede, in mezzo alle tenebre di tanti errori, più facilmente possano
conoscere e tenere la verità cattolica.
CANONI SUL SACRAMENTO DELL’ORDINE
1. Se qualcuno dirà che nel nuovo Testamento non vi è un sacerdozio
visibile ed esteriore, o che non vi è alcun potere di consacrare e di offrire
il vero corpo e sangue del Signore, di rimettere o di ritenere i peccati, ma il
solo ufficio e il nudo ministero di predicare il vangelo, o che quelli che non
predicano non sono sacerdoti, sia anatema.
2. Se qualcuno dirà che oltre al sacerdozio non vi sono nella chiesa
cattolica altri ordini, maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi
si tenda al sacerdozio, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che l’ordine, cioè la sacra ordinazione, non è un
sacramento in senso vero e proprio, istituito da Cristo signore, o che è
un’invenzione umana fatta da uomini ignoranti di cose ecclesiastiche, o che è
solo un rito per eleggere i ministri della parola di Dio e dei sacramenti, sia
anatema.
4. Se qualcuno dirà che con la sacra ordinazione non viene dato lo Spirito
santo, e che quindi, inutilmente il vescovo dice: Ricevi lo Spirito santo,
o che con essa non si imprime il carattere o che chi sia stato una volta
sacerdote, possa di nuovo diventare laico, sia anatema.
5. Se qualcuno dirà che la sacra unzione, che la chiesa usa fare nella
santa ordinazione, non solo non è necessaria, ma che si deve disprezzare e che
è dannosa, come tutte le altre cerimonie dell’ordine, sia anatema.
6. Se qualcuno dice che nella chiesa cattolica non vi è una gerarchia
istituita per disposizione divina, e formata di vescovi, sacerdoti e ministri,
sia anatema.
7. Se qualcuno dirà che i vescovi non sono superiori ai sacerdoti, o che
non hanno il potere di confermare e di ordinare, o che quello che hanno è
comune ad essi con i sacerdoti, o che gli ordini da loro conferiti senza il
consenso o la chiamata del popolo o dell’autorità secolare, sono invalidi; o
che quelli, che non sono stati né regolarmente ordinati né mandati dall’autorità
ecclesiastica e canonica, ma vengono da altri, sono legittimi ministri della
parola e dei sacramenti, sia anatema.
8. Se qualcuno dirà che i vescovi, assunti per autorità del romano
pontefice, non sono vescovi legittimi e veri, ma invenzione umana, sia anatema.
Decreto di riforma.
Lo stesso sacrosanto concilio Tridentino, proseguendo la materia della
riforma, stabilisce e ordina che, al presente, si debbano stabilire le cose che
seguono.
Canone I
Poiché con precetto divino (361) è stato comandato a tutti quelli cui è
stata affidata la cura delle anime, di conoscere le proprie pecore, di offrire
per esse il sacrificio, di pascerle con la predicazione della parola divina,
con l’amministrazione dei sacramenti e con l’esempio di ogni opera buona; di
aver una cura paterna per i poveri e per gli altri bisognosi e di attendere a
tutti gli altri doveri pastorali, - cose tutte che non possono essere fatte e
compiute da quelli che non vigilano sul proprio gregge e non lo assistono, ma
lo abbandonano come mercenari (362) - il sacrosanto sinodo li ammonisce e li
esorta, perché, memori dei divini precetti e divenuti esempi del gregge (363),
lo pascano e lo reggano nella saggezza e nella verità.
Perché le disposizioni che santamente e utilmente già precedentemente sono
state stabilite da Paolo III (364), di felice memoria, sulla residenza, non
vengano interpretate secondo sensi del tutto alieni dall’intenzione del
sacrosanto sinodo, - quasi che in forza di quel decreto si possa essere assenti
per cinque mesi continui, - il sacrosanto concilio, riconfermandole, dichiara
che tutti quelli che con qualsiasi ragione e con qualsiasi titolo sono messi a
capo di chiese patriarcali, primaziali, metropolitane, cattedrali anche se
fossero cardinali della santa chiesa romana, sono obbligati alla residenza
personale nella loro chiesa o diocesi e ad attendere in esse all’ufficio loro
affidato; e che non possono assentarsi, se non per i motivi e nei modi che
seguono.
Poiché, infatti, la carità cristiana, una urgente necessità, la dovuta
obbedienza ed una evidente utilità della chiesa e dello stato esige e richiede
talvolta che qualcuno si allontani, lo stesso sacrosanto concilio stabilisce
che queste cause di legittima assenza debbano essere approvate per iscritto dal
beatissimo romano pontefice, o dal metropolita, o, se questi fosse assente, dal
vescovo suffraganeo residente più anziano, che dovrà, inoltre, approvare
l’assenza del metropolita. A meno che l’assenza sia determinata da un incarico
o da un ufficio di pubblica utilità congiunto con i vescovati, le cui cause,
essendo notorie e qualche volta improvvise, non è neppure necessario
comunicarle al metropolita. A questi, tuttavia, spetterà, insieme col concilio
provinciale, giudicare delle licenze concesse da lui o da un suffraganeo e
vigilare che nessuno abusi di quel diritto, e che chi manca sia punito con le
pene canoniche.
Si ricordino, intanto, quelli che si assentano, che si deve provvedere in
tal modo alle loro pecore che, per quanto è possibile, esse non ricevano alcun
danno dalla loro assenza.
Inoltre, quelli che sono assenti solo per breve tempo, non si considerano
assenti secondo le prescrizioni degli antichi canoni, perché dovrebbero tornare
subito; il sacrosanto concilio però vuole che lo spazio dell’assenza, continuo
o ad intervalli, al di fuori delle cause predette, ogni anno non superi in
nessun modo i due, o, al massimo, i tre mesi; e che si faccia in modo che
l’assenza abbia un motivo plausibile e non rechi danno al gregge. Che davvero
sia così, lo si lascia alla coscienza di chi parte, che si spera sia religiosa
e timorata, dato che Dio, la cui opera sono tenuti a compiere senza inganno
(365), a loro rischio, vede i cuori (366).
Esso, inoltre, li ammonisce e li esorta nel Signore a non volersi assentare
in nessun modo dalla loro chiesa cattedrale durante il tempo dell’avvento del
Signore, della quaresima, della natività, della resurrezione del Signore, nei
giorni della pentecoste e del corpo di Cristo, nei quali le pecorelle devono
soprattutto essere ristorate e godere nel Signore della presenza del pastore, a
meno che i doveri episcopali li chiamino altrove nella loro diocesi.
Se qualcuno (che ciò non avvenga mai!), contro quanto stabilisce questo
decreto, si allontanasse, il sacrosanto sinodo stabilisce che, oltre alle altre
pene imposte sotto Paolo III contro i non residenti e rinnovate, e oltre al
peccato mortale, nel quale incorre, egli non abbia diritto di percepire i suoi
frutti in proporzione del tempo dell’assenza; e che, anche senza altra
dichiarazione, egli non possa con tranquilla coscienza, tenerli. È anzi tenuto,
o in suo difetto il superiore ecclesiastico, ad erogare questi frutti alla
fabbrica delle chiese o ai poveri del luogo. È anche proibita qualsiasi
convenzione o composizione per frutti mal percepiti per cui i frutti predetti
verrebbero in tutto o in parte lasciati all’interessato. Ciò, non ostante
qualsiasi privilegio, concesso a qualsiasi collegio o fabbrica.
Il sacrosanto sinodo dichiara e stabilisce le stesse, identiche cose -
anche per quanto riguarda la colpa, la perdita dei frutti, le pene - per i
curati inferiori e per qualsiasi altro che abbia un beneficio ecclesiastico con
cura d’anime, con questa precauzione: che quando essi, dopo che il motivo è
stato fatto presente e approvato dal vescovo, si allontanano, lascino un
sostituto adatto, che lo stesso ordinario dovrà approvare e a cui dovrà essere
assegnato il dovuto compenso. Essi, poi, non potranno ottenere il permesso di
andarsene per un tempo superiore al bimestre, eccetto il caso di un motivo
grave. Questo permesso sia rilasciato per iscritto e gratuitamente.
Se citati a comparire, anche non personalmente, fossero contumaci, il
sinodo lascia agli ordinari di costringerli con le censure ecclesiastiche, col
sequestro e la sottrazione dei frutti, e con gli altri rimedi del diritto, fino
alla privazione del beneficio. Questa esecuzione, poi, non potrà esser sospesa
da nessun privilegio, licenza, parentela, esenzione, anche a causa di qualsiasi
beneficio, patto, statuto, perfino confermato con giuramento o da qualsiasi
autorità, da qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, - che si deve
piuttosto dire corruttela - o appello o proibizione, anche alla curia romana o
in forza della costituzione di Eugenio IV (367).
Da ultimo, il santo sinodo comanda che nei concili provinciali e vescovili
siano pubblicati sia il decreto approvato sotto Paolo III, che questo.
Desidera, infatti, che le cose che sono essenziali al dovere pastorale e alla
salvezza delle anime, vengano fatte risuonare spesso agli orecchi e alle menti
di tutti, così che in avvenire, con l’aiuto di Dio, non siano abolite né per
ingiuria del tempo, né per dimenticanza degli uomini, né per la desuetudine.
Canone II
Quelli che per qualunque ragione e con qualsiasi titolo sono messi a capo
delle chiese cattedrali o superiori, anche se si trattasse di cardinali della
santa chiesa romana, qualora non ricevessero la consacrazione entro tre mesi,
siano tenuti alla restituzione dei frutti che hanno percepito. Se dopo ciò
trascureranno di riceverla per altri tre mesi, siano privati ipso iure delle loro chiese. Quanto alla consacrazione, se verrà fatta fuori della curia
romana, venga celebrata, possibilmente, nella chiesa, alla quale sono stati
promossi o nella provincia.
Canone III
I vescovi conferiscano gli ordini personalmente. Se per malattia non
potessero, mandino i loro sudditi già approvati ed esaminati ad altro vescovo
perché li ordini.
Canone IV
Non siano ammessi alla prima tonsura quelli che non avessero ricevuto il
sacramento della confermazione e una rudimentale istruzione sulla fede, che non
sappiano leggere e scrivere e dei quali non si possa facilmente pensare che
hanno scelto questo genere di vita non con l’astuta intenzione di poter fuggire
il giudizio secolare, ma per prestare a Dio un fedele servizio.
Canone V
Chi dev’essere promosso agli ordini minori abbia un buon attestato del
parroco o del maestro della scuola in cui viene educato.
Quelli poi che aspirano agli ordini maggiori, un mese prima
dell’ordinazione si rechino dal vescovo. Questi affiderà al parroco o ad altri,
come meglio crederà, il compito di indagare diligentemente - dopo aver
pubblicato, nella chiesa, i nomi e il desiderio di quelli che vogliono esser
promossi - sulla nascita, l’età, i costumi e la vita degli stessi ordinandi,
interrogando persone degne di fede, e di trasmettere al più presto le lettere
testimoniali al vescovo stesso con l’indagine fatta.
Canone VI
Nessuno, ricevuta la prima tonsura o costituito negli ordini minori, potrà
ricevere un beneficio prima dal quattordicesimo anno. Questi non dovrà neppure
godere del privilegium fori, se non ha
un beneficio ecclesiastico o se, per disposizione del vescovo non serva, in
qualche chiesa, o non si trovi in un seminario di chierici, o, con licenza del
vescovo, in qualche scuola od università, per prepararsi a ricevere gli ordini
maggiori.
Con i chierici ammogliati si osservi la costituzione di Bonifacio VIII Clerici,
qui cum unicis (368),
purché essi, destinati dal vescovo al servizio o al ministero di qualche
chiesa, prestino davvero il loro servizio e ministero in quella chiesa e
portino l’abito clericale e la tonsura.
A nessuno potrà esser di aiuto, in ciò, qualsiasi privilegio o
consuetudine, anche immemorabile.
Canone VII
Il santo sinodo, seguendo le prescrizioni degli antichi canoni, dispone
che, quando il vescovo intende fare un’ordinazione, tutti quelli che vogliono
entrare nel sacro ministero, il mercoledì prima dell’ordinazione, o quando
sembrerà al vescovo, vengano chiamati in città. E il vescovo, con l’assistenza
di sacerdoti e di altre persone prudenti, dotte nella legge divina e pratiche
delle leggi ecclesiastiche, cerchi di conoscere ed esamini attentamente la
famiglia, la persona, l’età, l’educazione, i costumi, la dottrina, la fede
degli ordinandi.
Canone VIII
Il conferimento dei sacri ordini sia celebrato pubblicamente nei tempi
stabiliti dal diritto nella chiesa cattedrale. Siano chiamati e siano presenti
a ciò i canonici della chiesa. Se dovesse farsi in altro luogo, si scelga
sempre, per quanto sarà possibile, la chiesa più degna, presente il clero del
luogo.
Ciascuno sia ordinato dal proprio vescovo. E se qualcuno chiedesse di
essere promosso da altri, non gli sia in nessun modo concesso, - neppure col
pretesto di qualche rescritto o privilegio generale o speciale, e nei tempi
stabiliti, - se la sua onestà e la sua condotta non siano raccomandati da un
attestato del suo ordinario. Se si agisse diversamente, l’ordinante sia sospeso
per un anno dal conferimento degli ordini; chi è stato ordinato sia sospeso
dall’esercizio degli ordini ricevuti, per tutto il tempo che sembrerà opportuno
all’ordinario.
Canone IX
Un vescovo non potrà ordinare un suo familiare, che non sia suo suddito, se
non avrà vissuto con lui per un triennio, e non gli conferisca immediatamente e
realmente un beneficio, al di fuori di ogni inganno. Ciò, non ostante qualsiasi
consuetudine contraria, anche immemorabile.
Canone X
In avvenire, non sia permesso agli abati né a chiunque altro esente,
chiunque sia, che si trovi entro i confini di una diocesi, anche se si dica di
nessuna diocesi o esente, conferire la tonsura o gli ordini minori a chiunque,
che non sia regolarmente suo suddito; gli stessi abati ed altri esenti, o
collegi o capitoli qualsiasi, anche di chiese cattedrali, non dovranno
concedere lettere dimissorie a chierici secolari perché vengano ordinati da
altri; l’ordinazione di tutti questi, invece - nella piena osservanza di tutte
le prescrizioni contenute nei decreti di questo santo sinodo, - sia riservata
ai vescovi nel territorio della cui diocesi essi si trovano. Non ostante
qualsiasi privilegio, prescrizione, o consuetudine, anche immemorabile.
Il sinodo dispone che anche la pena stabilita contro chi chiede le lettere
dimissorie al capitolo cattedrale, durante la vacanza della sede - contro il
decreto di questo santo sinodo, sotto Paolo III (369), - sia estesa a quelli
che ottenessero le stesse lettere non dal capitolo, ma da chiunque altro che,
sede vacante, succeda nella giurisdizione del vescovo, invece del capitolo.
Chi conceda lettere dimissorie contro il tenore dello stesso decreto, sia
sospeso ipso iure dal suo ufficio e beneficio per un anno.
Canone XI
Gli ordini minori siano conferiti a quelli che comprendono la lingua
latina, osservando gli intervalli di tempo, a meno che al vescovo non sembri
meglio fare diversamente. Cosi potranno essere più accuratamente istruiti
sull’importanza di questo impegno. Si esercitino in ognuno di questi uffici,
secondo le prescrizioni del vescovo, nella chiesa, cui saranno addetti, a meno
che non siano assenti per motivi di studio; e così salgano, di grado in grado e
con l’età cresca in essi il merito ed una maggiore dottrina.
Confermeranno ciò soprattutto l’esempio dei buoni costumi, l’assiduo
servizio nella chiesa, una maggiore riverenza verso i sacerdoti e gli ordini
superiori, la comunione più frequente del corpo di Cristo.
E poiché da qui si apre l’ingresso ai gradi più alti e ai misteri più
sacri, nessuno sia promosso ad essi se non lascia sperare di esserne degno.
Nessuno sia promosso ai sacri ordini, se non dopo un anno da quando ha
ricevuto l’ultimo grado degli ordini minori, a meno che a giudizio del vescovo
la necessità o l’utilità della chiesa non richieda diversamente.
Canone XII
D’ora innanzi nessuno sia promosso all’ordine del suddiaconato prima dei
ventidue anni di età; al diaconato, prima dei ventitré; al sacerdozio, prima
dei venticinque.
I vescovi tengano presente, però, che non tutti quelli che hanno raggiunto
questa età devono essere assunti a questi ordini, ma solo i degni e quelli, la
cui onesta vita è testimonianza di maturità (370). Anche i religiosi non siano
ordinati né in età minore né senza diligente esame da parte del vescovo. Si
esclude assolutamente, in ciò, qualsiasi privilegio.
Canone XIII
Siano ordinati suddiaconi e diaconi quelli che hanno buona reputazione, che
hanno dato buona prova già negli ordini minori, che sono istruiti nelle lettere
e sono in possesso delle qualità necessarie per esercitare il loro ordine e
che, con l’aiuto di Dio, possono sperare di praticare la continenza. Prestino
servizio nelle chiese, cui saranno assegnati e sappiano che faranno cosa
sommamente degna, se, almeno nelle domeniche e nei giorni più solenni, servendo
all’altare, riceveranno la santa comunione. Non si permetta che quelli che sono
promossi all’ordine sacro del suddiaconato, salgano al grado superiore, se non
avranno passato almeno un anno in quell’ordine, a meno che al vescovo non
sembri diversamente. Non vengano conferiti due ordini sacri nello stesso
giorno, neppure ai religiosi, non ostante qualsiasi privilegio ed indulto
concesso a chiunque.
Canone XIV
Quelli che si sono comportati piamente e fedelmente nei ministeri
precedenti, siano assunti all’ordine del presbiterato. Abbiano buona
testimonianza (371), e siano tali, che non solo abbiano servito almeno un anno
intero nel diaconato - a meno che per una utilità e necessità della chiesa non
sembri al vescovo di dover fare diversamente - ma che, previo diligente esame,
siano anche giudicati capaci di insegnare al popolo quelle verità che a tutti è
necessario sapere per la salvezza, e di amministrare i sacramenti; che,
inoltre, brillino in tal modo per pietà e purezza di costumi, da potersi
aspettare da essi un meraviglioso esempio di buone opere e moniti di vita.
Il vescovo curi che essi celebrino la santa messa almeno nelle domeniche e
nelle feste più solenni; e, se hanno cura d’anime, tanto frequentemente, da
soddisfare al loro dovere.
A quelli che sono stati promossi con un salto, se essi non hanno esercitato
il ministero, il vescovo potrà accordare la dispensa per una causa legittima.
Canone XV
Anche se i sacerdoti nella loro ordinazione ricevono il potere di assolvere
dai peccati, tuttavia, questo santo concilio stabilisce che nessuno, neppure un
religioso, possa ascoltare le confessioni dei secolari - anche sacerdoti - ed
essere giudicato adatto a questo ministero, se o non ha un beneficio
parrocchiale o non è ritenuto capace dal vescovo con un esame - se questi lo
crederà necessario - o in altro modo, e non ottiene l’approvazione. Questa
dev’essere data gratuitamente. Ciò non ostante qualsiasi privilegio e
consuetudine, anche immemorabile.
Canone XVI
Poiché nessuno dev’essere ordinato, se a giudizio del suo vescovo non sia
utile o necessario alle sue chiese, il santo sinodo, conformemente al sesto
canone del concilio di Calcedonia (372), stabilisce
che nessuno, in futuro, venga ordinato, se non è addetto alla chiesa o al luogo
pio, per la cui necessità od utilità viene assunto, dove egli eserciti i suoi
doveri, senza andare vagando da una sede all’altra. Se per caso egli
abbandonasse il posto, senza avere il permesso del vescovo, gli si proibisca
l’esercizio dei sacri ministeri. Inoltre, nessun chierico straniero sia ammesso
da nessun vescovo a celebrare i divini misteri e ad amministrare i sacramenti,
senza lettere commendatizie del proprio ordinario.
Canone XVII
Perché le funzioni dei santi ordini, dal diaconato all’ostiariato,
lodevolmente accolte nella chiesa fin dai tempi degli apostoli, e in molti
luoghi per lungo tempo interrotte, siano rimesse in uso secondo i sacri canoni,
e non siano criticate dagli eretici come inutili, il santo sinodo, desiderando
vivamente di rimettere in uso quell’antica usanza, stabilisce che, in futuro
tali ministeri non siano esercitati se non da quelli che sono costituiti in
questi ordini.
Il concilio esorta, quindi, nel Signore, tutti e singoli i prelati e
comanda loro di far in modo - per quanto è possibile - che nelle chiese
cattedrali, collegiate e parrocchiali della loro diocesi, dove un popolo
numeroso e i proventi della chiesa lo permettono, queste funzioni vengano
ripristinate, assegnando a quelli che le esercitano uno stipendio sui redditi
di qualche beneficio semplice o della fabbrica della chiesa, se vi fossero dei
proventi, o dell’uno e dell’altra. Se poi questi chierici fossero negligenti,
siano multati di una parte degli emolumenti o addirittura privati di essi, a
giudizio dell’ordinario.
Se, inoltre, non si trovassero dei chierici celibatari per esercitare i
quattro ordini minori, potranno essere loro sostituiti anche degli sposati di
onesta vita, adatti a questi uffici, purché non bigami e a condizione che in
chiesa portino la tonsura e l’abito clericale.
Canone XVIII
Gli adolescenti, se non sono ben formati, sono inclini a seguire i piaceri
del mondo (373) e se non sono orientati, fin dai teneri anni, alla pietà e alla
religione prima che cattive abitudini si impadroniscano completamente
dell’uomo, non sono capaci di perseverare completamente nella disciplina
ecclesiastica, senza un aiuto grandissimo e singolarissimo di Dio onnipotente.
Per questo il santo sinodo stabilisce che le singole chiese cattedrali, metropolitane,
e le altre maggiori di queste, in proporzione delle loro facoltà e della
grandezza della diocesi, siano obbligate a mantenere, educare religiosamente ed
istruire nella disciplina ecclesiastica un certo numero di fanciulli della
stessa città e diocesi, o, se non fossero abbastanza numerosi, della provincia,
in un collegio scelto dal vescovo vicino alle stesse chiese o in altro luogo
adatto.
Siano ammessi in questo collegio quelli che hanno almeno dodici anni e sono
nati da legittimo matrimonio, che abbiano imparato a leggere e a scrivere e la
cui indole e volontà dia speranza che essi sono disposti ad essere sempre a
servizio della chiesa. Il concilio intende che vengano scelti specialmente i
figli dei poveri, senza escludere i figli dei ricchi, purché si mantengano da
sé e mostrino inclinazione a servire con zelo Dio e la chiesa.
Il vescovo dividerà questi fanciulli in tante classi quante a lui sembrerà,
secondo il loro numero, la loro età, il progresso nella disciplina
ecclesiastica. E quando gli sembrerà opportuno, ne destinerà una parte al
servizio delle chiese, una parte ne lascerà nel collegio perché siano istruiti,
sostituendo altri al posto di quelli che sono stati formati, di modo che questo
collegio sia un perpetuo seminario di ministri di Dio.
Perché, poi, possano essere istruiti più facilmente nella disciplina
ecclesiastica, prenderanno subito la tonsura e indosseranno sempre la veste
clericale; impareranno la grammatica, il canto, il computo ecclesiastico e le
altre conoscenze utili; attenderanno con ogni attenzione allo studio della
sacra scrittura, dei libri ecclesiastici, delle omelie dei santi, al modo di
amministrare i sacramenti, - specie per ascoltare le confessioni, - e
impareranno le regole dei riti e delle cerimonie.
Il vescovo procuri che ogni giorno assistano al sacrificio della messa; che
almeno ogni mese si confessino, e secondo il giudizio del confessore, ricevano
il corpo del nostro signore Gesù Cristo e che nei giorni festivi servano in
cattedrale e nelle altre chiese del luogo: cose tutte, insieme ad altre
opportune e necessarie a questo riguardo, che i singoli vescovi stabiliranno
col consiglio dei due canonici più anziani e di maggior criterio, che essi
eleggeranno come lo Spirito santo suggerirà loro. Questo consilio si darà da fare con visite frequenti perché tali prescrizioni vengano
osservate. Essi puniranno severamente i caratteri difficili e incorreggibili e
quelli che propagano cattivi costumi. Se necessario, li cacceranno, toglieranno
ogni impedimento e porranno ogni cura nel realizzare qualsiasi cosa che sembri
possa essere adatta a conservare e far fiorire una istituzione così pia e così
santa.
Per costruire l’edificio del collegio, per dare un compenso ai professori e
al personale, per mantenere la gioventù e per altre spese, oltre ai mezzi che
in alcune chiese e luoghi sono destinati all’educazione e al mantenimento dei
fanciulli, che il vescovo avrà cura di devolvere a favore di questo seminario
-, saranno necessari dei redditi fissi. Per questo, gli stessi vescovi, col
consiglio di due membri del capitolo, di cui uno eletto dal vescovo e l’altro
dal capitolo e similmente di due membri del clero della città, la cui elezione
spetti per uno al vescovo e per l’altro al clero, detrarranno una parte delle
rendite della mensa vescovile, del capitolo, di qualsiasi dignità, personato,
ufficio, prebenda, porzione, abbazia e priorato, di qualsiasi ordine, - anche
regolare -, qualità o condizione essi fossero; ed inoltre degli ospedali che
vengono dati in titolo o in amministrazione, secondo la costituzione del
concilio di Vienne Quia contingit (374), di ogni beneficio, anche regolare, di qualsiasi diritto di patronato o
esente o di nessuna diocesi o annesso ad altre chiese, monasteri, ospedali, o a
qualsiasi altro luogo pio, anche esente. Detrarranno una parte anche dalle
fabbriche delle chiese ed altri luoghi pii e da qualsiasi altro reddito e
provento ecclesiastico, anche di altri collegi (in cui, tuttavia, non vi siano
attualmente seminari di alunni e di maestri per promuovere il comune bene della
chiesa: il concilio, infatti, ha voluto che questi fossero esenti, salvo per i
redditi eccedenti al conveniente sostentamento degli stessi seminari), o di
corporazioni o confraternite - che in alcuni luoghi sono dette scuole - di
tutti i monasteri, ma non dei mendicanti; anche dalle decime in qualsiasi modo
appartenenti ai laici, da cui sogliono essere pagati sussidi ecclesiastici, e
ai soldati di qualsiasi milizia ed ordine (eccettuati soltanto i frati di S.
Giovanni di Gerusalemme).
Essi applicheranno e incorporeranno a questo collegio la parte così
detratta, assieme ad alcuni benefici semplici, di qualsiasi qualità e dignità,
o anche i prestimoni, o quelle che sono dette porzioni prestimoniali,
anche prima che si rendano vacanti, naturalmente senza pregiudizio del culto
divino e di quelli che le hanno.
Ciò abbia luogo anche se i benefici sono riservati. Né queste unioni ed
aggiunte potranno esser sospese o impedite in alcun modo per la rinuncia degli
stessi benefici; ma sortiranno assolutamente il loro effetto, non ostante
qualsiasi vacanza, - anche nella curia romana -, e qualsiasi costituzione.
I possessori dei benefici, delle dignità, dei personati, e di tutti e
singoli quegli enti che sono stati nominati poco fa, siano costretti dai
vescovi a pagare questa porzione con le censure ecclesiastiche e con gli altri
mezzi del diritto, non solo per sé, ma anche per le pensioni che dovessero per
caso pagare ad altri da questi frutti, ritenendo, tuttavia, "pro
rata" quanto essi dovranno pagare per queste pensioni. A questo scopo
potranno servirsi, se lo crederanno, dell’aiuto del braccio secolare. Tutto
ciò, - per quanto riguarda tutte e singole le prescrizioni suddette - non
ostante qualsiasi privilegio, esenzione (anche se dovessero richiedere una
deroga particolare), consuetudine, anche immemorabile, appello, citazione, che
avesse forza di impedire l’esecuzione.
Nel caso, poi, che, mandate ad effetto queste unioni, - o anche in altra
maniera - il seminario in tutto o in parte venga a trovarsi provvisto, allora
la porzione detratta ai singoli benefici, come descritto sopra, sarà condonata
in tutto o in parte dal vescovo, come la cosa esigerà.
Se in questa erezione e conservazione del seminario i prelati delle chiese
cattedrali e delle altre chiese maggiori fossero negligenti e si rifiutassero
di pagare la loro porzione, l’arcivescovo dovrà riprendere severamente il
vescovo, il sinodo provinciale dovrà riprendere l’arcivescovo e quelli a lui
superiori e costringerli a fare tutto ciò che è stato detto e farà in modo, con
ogni diligenza, che quest’opera santa e pia, dovunque si possa, venga
realizzata.
Il vescovo, poi, si faccia fare ogni anno una relazione sui redditi di
questo seminario, presenti due membri del capitolo ed altre due persone scelte
dal clero della città. Inoltre, perché con minore spesa si possa provvedere
all’istituzione di tali scuole, il santo sinodo stabilisce che i vescovi, gli
arcivescovi, i primati e gli altri ordinari costringano e spingano in ogni modo
- anche col togliere loro i frutti - quelli che hanno cattedre di insegnamento
oppure l’ufficio di lettore o di insegnante, ad insegnare in queste scuole a
quelli che devono essere istruiti: personalmente se sono capaci, altrimenti per
mezzo di sostituti adatti, scelti da loro stessi e approvati dagli ordinari. Se
a giudizio del vescovo questi non fossero degni, nominino un altro che sia
degno, senza alcun diritto di appello. Se fossero negligenti nel far ciò, lo
nomini lo stesso vescovo. Essi insegneranno quello che al vescovo sembrerà
opportuno.
Per l’avvenire, poi, gli uffici e dignità attinenti all’insegnamento non
siano conferiti se non ai dottori o ai maestri, o ai licenziati in sacra
scrittura o in diritto canonico o a persone idonee e disponibili ad adempiere
questo ufficio personalmente. Ogni provvista fatta in modo diverso sia nulla ed
invalida. Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche
immemorabile.
Se poi in qualche provincia le chiese fossero tanto povere, da non potersi
erigere, in qualcuna, il collegio, il sinodo provinciale o il metropolita con i
due suffraganei più anziani farà in modo che nella chiesa metropolitana o nella
chiesa più comoda della provincia, con i frutti di due o più chiese - in
ciascuna delle quali il collegio non potrebbe essere facilmente costituito -
vengano eretti uno o più collegi, come giudicherà opportuno, dove i fanciulli
di quelle chiese siano educati.
Nelle chiese, invece, che hanno diocesi ampie, il vescovo potrà avere uno o
più seminari, come gli sembrerà opportuno, che, però, dovranno dipendere in
tutto e per tutto da quello eretto e costituito nella città.
Per ultimo, se per le unioni, per la tassazione o assegnazione e
incorporazione delle porzioni o per qualsiasi altro motivo, sorgesse qualche
difficoltà, per cui la costituzione e la conservazione di questo seminario
potrebbe esserne impedita o resa difficile, il vescovo e i deputati per questo
problema o il sinodo provinciale, a seconda degli usi della regione, della
qualità delle chiese e dei benefici, - limitando anche o aumentando quanto
sopra abbiamo prescritto, se fosse necessario - potranno determinare e prendere
ogni singolo provvedimento che sembrerà necessario ed opportuno al felice
progresso di questo seminario.
Decreto sul giorno della futura sessione e sulle materie che in essa
saranno trattate.
Lo stesso sacrosanto sinodo Tridentino indice la prossima futura sessione
per il giorno sedici del mese di settembre. In essa si tratterà del sacramento
del matrimonio e di altri argomenti, se vi saranno questioni relative alla
dottrina della fede, che possano essere portate a conclusione. Si tratterà
anche delle provviste dei vescovati, delle dignità e degli altri benefici
ecclesiastici e dei diversi articoli della riforma.
SESSIONE XXIV (11 novembre 1563)
(Dottrina sul sacramento del matrimonio).
Il vincolo del matrimonio fu dichiarato solennemente perpetuo e
indissolubile dal primo padre del genere umano quando disse, sotto
l’ispirazione dello Spirito santo: Questo, ora, è osso delle mie ossa e
carne della mia carne. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
alla propria moglie: e saranno due in una sola carne (375).
Che questo vincolo dovesse unire e congiungere due persone soltanto, Cristo
Signore lo insegnò più apertamente, quando, riferendo quelle ultime parole come
pronunciate da Dio, disse: Quindi, ormai non sono più due, ma una sola carne e immediatamente confermò la stabilità di quel vincolo, affermata da Adamo
tanto tempo prima, con queste parole: L’uomo, quindi, non separi quello che
Dio ha congiunto (376).
Lo stesso Cristo, autore e perfezionatore dei santi sacramenti, con la sua
passione ci ha meritato la grazia, che perfezionasse quell’amore naturale, ne
confermasse l’indissolubile unità e santificasse gli sposi. Cosa che Paolo
apostolo accenna, quando dice: Uomini, amate le vostre mogli come Cristo ha
amato la chiesa ed ha sacrificato se stesso per essa (377). E poco dopo
soggiunge: Grande è questo sacramento. Io dico in Cristo e nella chiesa (378).
Poiché, quindi, il matrimonio nella legge evangelica è superiore per la
grazia di Cristo agli antichi matrimoni, giustamente i nostri santi padri, i
concili e la tradizione della chiesa universale hanno sempre insegnato che si
dovesse annumerare tra i sacramenti della nuova legge.
Insanendo contro di essa, uomini empi di questo secolo non solo si sono
formati un’opinione falsa di questo venerabile sacramento, ma secondo il
proprio costume, col pretesto del vangelo hanno introdotto la libertà della
carne e con la bocca e con gli scritti hanno affermato molte cose aliene dal
senso della chiesa cattolica e dalla tradizione approvata dai tempi degli
apostoli, non senza grande danno dei fedeli cristiani.
Perciò il santo e universale sinodo, volendo opporsi alla loro temerità, ha
determinato di sterminare le eresie e gli errori più notevoli di questi
scismatici e di stabilire contro gli stessi eretici ed i loro errori i seguenti
anatematismi.
CANONI SUL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO
1. Se qualcuno dirà che il matrimonio non è in senso vero e proprio uno dei
sette sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo, ma che è stato
inventato dagli uomini nella chiesa, e non conferisce la grazia, sia anatema.
2. Chi dirà che è lecito ai cristiani avere nello stesso tempo più mogli e
che ciò non è proibito da alcuna legge divina, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che solo i gradi di consanguineità e di affinità
enumerati nel Levitico (379) possono impedire di contrarre il matrimonio e
possono sciogliere uno già contratto e che la chiesa non può dispensare da
qualcuno di essi o costituirne in numero maggiore che lo impediscano e lo
sciolgano, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà che la chiesa non poteva stabilire degli impedimenti
dirimenti il matrimonio, o che stabilendoli ha errato, sia anatema.
5. Se qualcuno dirà che per motivo di eresia o a causa di una convivenza
molesta o per l’assenza esagerata dal coniuge si possa sciogliere il vincolo
matrimoniale, sia anatema.
6. Se qualcuno dirà che il matrimonio rato e non consumato non venga
sciolto con la professione solenne di uno dei coniugi, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando ha insegnato ed insegna
che secondo la dottrina evangelica ed apostolica (380) non si può sciogliere il
vincolo del matrimonio per l’adulterio di uno dei coniugi, e che l’uno e
l’altro (perfino l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio) non
possono, mentre vive l’altro coniuge, contrarre un altro matrimonio, e che,
quindi, commette adulterio colui che, lasciata l’adultera, ne sposi un’altra, e
colei che, scacciato l’adultero, si sposi con un altro, sia anatema.
8. Se qualcuno dirà che la chiesa sbaglia quando, per vari motivi,
stabilisce che si può fare la separazione dalla coabitazione tra i coniugi, a
tempo determinato o indeterminato, sia anatema.
9. Se qualcuno dirà che i chierici costituiti negli ordini sacri o i
religiosi che hanno emesso solennemente il voto di castità, possono contrarre
matrimonio, e che questo, una volta contratto, sia valido, non ostante la legge
ecclesiastica o il voto, e che sostenere l’opposto non sia altro che condannare
il matrimonio; e che tutti quelli che sentono di non avere il dono della
castità (anche sé ne hanno fatto il voto) possono contrarre matrimonio, sia
anatema. Dio, infatti, non nega questo dono a chi lo prega (381) con retta
intenzione e non permette che noi siamo tentati al di sopra di quello che
possiamo (382).
10. Se qualcuno dirà che lo stato coniugale è da preferirsi alla verginità
o al celibato e che non è cosa migliore e più beata rimanere nella verginità e
nel celibato, che unirsi in matrimonio (383), sia anatema.
11. Se qualcuno dirà che la proibizione della solennità delle nozze in
alcuni periodi dell’anno è una superstizione tirannica, che ha avuto origine
dalla superstizione dei pagani o condannerà le benedizioni e le altre
cerimonie, di cui la chiesa fa uso in esse, sia anatema.
12. Se qualcuno dirà che le cause matrimoniali non sono di competenza dei
giudici ecclesiastici, sia anatema.
CANONI SULLA RIFORMA DEL MATRIMONIO
Capitolo I
Quantunque non si debba dubitare che i matrimoni clandestini, celebrati con
il libero consenso dei contraenti, siano rati e veri matrimoni, almeno fino a
che la chiesa non li abbia dichiarati invalidi, - e che, quindi, a buon diritto
debbano condannarsi (come il santo sinodo in realtà condanna) quelli che negano
che essi siano veri e rati e chi falsamente afferma che i matrimoni contratti
dai figli senza il consenso dei genitori siano nulli, e che questi possano
invalidarli o annullarli, - tuttavia la santa chiesa di Dio li ha sempre, per
giustissimi motivi, detestati e proibiti.
Il santo sinodo però deve riconoscere che tali proibizioni per la
disobbedienza degli uomini non servono a nulla e considera i gravi peccati che
nascono da questi matrimoni, specie di coloro che rimangono in una condizione
di dannazione, quando, lasciata la prima moglie, con cui hanno contratto
segretamente matrimonio, lo contraggono pubblicamente con un’altra, e vivono
con essa in perpetuo adulterio. Ora la chiesa, che non giudica delle intenzioni
occulte, non può ovviare a questo male, se non provvede con qualche rimedio più
efficace.
Seguendo, perciò, le orme del sacro concilio Lateranense (384), celebrato
sotto Innocenzo III, comanda che in avvenire, prima che si contragga il
matrimonio, per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi il parroco dei
contraenti dichiari pubblicamente in chiesa, durante la santa messa, tra chi
debba contrarre il matrimonio. Fatte queste pubblicazioni, se non si oppone
alcun legittimo impedimento, si proceda alla celebrazione del matrimonio
dinanzi alla chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna, ed inteso
il loro mutuo consenso, dica: Io vi congiungo in matrimonio nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito santo, o si serva di altra formula,
secondo il rito consueto in ciascuna provincia.
Se poi in qualche caso vi fosse il fondato sospetto che, facendo tante pubblicazioni,
il matrimonio potrebbe essere maliziosamente impedito, allora si faccia solo
una pubblicazione, o il matrimonio venga celebrato almeno alla presenza del
parroco e di due o tre testimoni. Quindi, prima della consumazione, si facciano
le pubblicazioni in chiesa, affinché se vi fosse qualche impedimento sia
facilmente scoperto, a meno che l’ordinario stesso non giudichi opportuno che
le predette pubblicazioni vengano omesse, cosa che il santo sinodo rimette alla
sua prudenza e al suo criterio.
Quelli che tenteranno di contrarre matrimonio in maniera diversa da quella
prescritta, e cioè presente il parroco o altro sacerdote, con la licenza dello
stesso parroco o dell’ordinario e con due o tre testimoni, il santo sinodo li
rende assolutamente incapaci a contrarre il matrimonio in tal modo e dichiara
nulli e vani questi contratti; e col presente decreto li rende vani e li
annulla.
Comanda, inoltre, che siano gravemente puniti a giudizio dell’ordinario, il
parroco e qualsiasi altro sacerdote, che con minor numero di testimoni
assistesse a tale contratto; e i testimoni che lo facessero senza il parroco o
altro sacerdote; ed anche gli stessi contraenti.
Il santo sinodo, inoltre, raccomanda che gli sposi, prima della benedizione
sacerdotale - da riceversi in chiesa - non abitino insieme nella stessa casa.
Stabilisce anche che la benedizione debba essere impartita dal proprio parroco
e che nessun altro, fuorché lo stesso parroco o l’ordinano, possa concedere la
licenza di dare questa benedizione ad altro sacerdote, non ostante qualsiasi
consuetudine, anche immemorabile, - che deve dirsi piuttosto corruzione - o
privilegio.
Se un parroco od altro sacerdote, sia regolare che secolare, - anche se
crede di poterlo fare per un privilegio o per una consuetudine immemorabile -,
osasse unire in matrimonio o benedire sposi di altra parrocchia, senza il
permesso del loro parroco, per disposizione stessa del diritto rimanga sospeso
fino a quando non sia assolto dall’ordinario del parroco che avrebbe dovuto
assistere al matrimonio, o che avrebbe dovuto impartire la benedizione.
Il parroco abbia un registro, in cui scriva accuratamente i nomi dei
coniugi e dei testimoni, il giorno e il luogo in cui fu contratto il
matrimonio, e lo conservi diligentemente presso di sé.
Da ultimo, il santo sinodo esorta i coniugi che prima di contrarre il
matrimonio, o almeno tre giorni prima della sua consumazione, confessino
diligentemente i propri peccati, e si accostino piamente al santissimo
sacramento dell’eucarestia.
Se vi fossero poi delle province che, oltre a queste, abbiano anche altre
lodevoli consuetudini e cerimonie, il santo sinodo desidera vivamente che vengano
conservate.
E perché precetti così salutari non debbano rimanere ignoti a qualcuno,
comanda a tutti gli ordinari che, non appena lo possano, facciano in modo che
questo decreto venga reso noto e spiegato al popolo in ogni chiesa parrocchiale
delle loro diocesi. Nel primo anno, ciò dovrà farsi spessissimo; poi, quando lo
crederanno necessario.
Stabilisce, inoltre, che questo decreto cominci ad andare in vigore, in
ogni parrocchia, a trenta giorni dalla prima pubblicazione nella stessa
parrocchia.
Capitolo II
L’esperienza insegna che molte volte, per la moltitudine delle proibizioni,
si contraggono ignorantemente matrimoni in casi proibiti. Allora, o si continua
nel matrimonio non senza grande peccato o esso si scioglie non senza grave
scandalo.
Il concilio, quindi, volendo provvedere a questo inconveniente, a
cominciare dall’impedimento della parentela spirituale, stabilisce che solo
uno, uomo o donna secondo le prescrizioni dei sacri cànoni,
o al massimo un uomo e una donna possano tenere il battezzato al battesimo. Tra
essi, il battezzato stesso e il padre e la madre di lui, come pure tra il
battezzante e il battezzato e il padre e la madre del battezzato soltanto, si
determini la parentela spirituale.
Il parroco, prima di recarsi a conferire il battesimo, si informi
diligentemente da quelli cui spetta, quale o quali persone essi hanno scelto
per ricevere il battezzato dal sacro fonte, ed ammetta a tale ufficio soltanto
quella o quelle; trascriva i loro nomi nel registro, e li informi della
parentela che hanno contratto, perché non possano essere scusati da alcuna
ignoranza.
Se poi anche altri oltre quelli designati, toccassero il battezzato, questi
non contrarranno in nessun modo parentela spirituale. Le costituzioni in
contrario non avranno alcun valore. Se poi per colpa o negligenza del parroco
si facesse diversamente, sia punito a giudizio dell’ordinario.
Anche la parentela che nasce dalla confermazione non deve estendersi oltre
chi conferma e chi viene confermato, suo padre e sua madre, e chi tocca il bambino.
Tutti gli impedimenti di questa parentela spirituale che riguardano altre
persone siano assolutamente aboliti.
Capitolo III
Il santo concilio toglie del tutto l’impedimento di giustizia di pubblica
onestà, quando gli sponsali per qualsiasi motivo non fossero validi. Ma quando
sono validi, non oltrepassi il primo grado, poiché negli altri (gradi) questa
proibizione non può più essere osservata senza danno.
Capitolo IV
Questo santo sinodo, inoltre, indotto da questi ed altri gravissimi motivi,
restringe solo ai parenti in primo e secondo grado l’impedimento che deriva
dall’affinità contratta con la fornicazione e che scioglie il matrimonio
contratto in seguito. E stabilisce che negli altri gradi questa affinità non
scioglie il matrimonio contratto in seguito.
Capitolo V
Chi consapevolmente credesse di poter contrarre matrimonio nei gradi
proibiti, sia separato e non abbia alcuna speranza di ottenere la dispensa. Ciò
si osservi in modo particolare con chi osasse non solo contrarre il matrimonio,
ma consumarlo. Se poi l’avesse fatto per ignoranza, per aver trascurato le
solennità prescritte nel contrarre il matrimonio, sia soggetto alle stesse
pene: non è degno, infatti, di trovar facilmente benevolenza presso la chiesa,
chi ha trascurato i suoi salutari ammonimenti. Ma se, pur essendosi attenuti
alle forme, in seguito si venisse a conoscere qualche impedimento, di cui egli,
probabilmente, non ha avuto conoscenza, in questo caso più facilmente - e
gratuitamente - gli si potrà concedere la dispensa.
Per i matrimoni da contrarre non si concedano assolutamente dispense, o
raramente; ciò, inoltre, non senza motivo e gratuitamente. Nel secondo grado
non si dispensi mai, se non tra grandi principi e per un pubblico motivo.
Capitolo VI
Il santo concilio stabilisce che tra il rapitore e la persona rapita non
possa aver luogo alcun matrimonio, per tutto il tempo che essa rimane in potere
del rapitore. Se la persona rapita, separata dal rapitore e posta in luogo
sicuro e libero, acconsentisse ad averlo per marito, il rapitore la prenda pure
in moglie, ma il rapitore stesso e tutti quelli che gli hanno dato il loro
consiglio e prestato il loro aiuto e il loro favore siano ipso iure scomunicati, infami per sempre e incapaci di qualsiasi dignità. Se poi fossero
chierici, decadano dalla propria condizione. Il rapitore, inoltre, sia che la
sposi, sia che non la sposi, sia obbligato a dare una dote alla persona rapita,
proporzionata alla sua condizione, secondo la decisione del giudice.
Capitolo VII
Vi sono molti che vagano qua e là e non hanno fissa dimora. Poiché sono di
indole cattiva, abbandonata la prima moglie, ne prendono un’altra, o
addirittura più, in diversi luoghi, mentre essa vive ancora. Il santo sinodo
intende rimediare a questa piaga e ammonisce paternamente tutti quelli, cui spetta,
di non esser troppo facili ad ammettere al matrimonio questo genere di
individui vaganti. Ed esorta anche le autorità secolari, perché li reprimano
severamente.
Ai parroci poi comanda di non assistere ai loro matrimoni, senza aver
assunto prima diligenti informazioni, e se, dopo aver riferito la cosa
all’ordinario, non hanno prima ottenuto la licenza di fare ciò.
Capitolo VIII
È grave peccato, certamente, che uomini non sposati abbiano concubine. Ma
che anche uomini ammogliati vivano in questo stato di dannazione ed osino,
qualche volta, mantenerle e tenerle in casa con le mogli, ciò è gravissimo, ed
è atteggiamento di particolare disprezzo contro questo grande sacramento.
Perciò il santo sinodo, volendo provvedere con opportuni rimedi ad un male
così grande, stabilisce che questi concubinari, sia liberi che ammogliati, di
qualsiasi stato, dignità e condizione essi siano, se, ammoniti di ciò
dall’ordinario - anche d’ufficio - per tre volte, non rimandano le concubine e
non cessano la vita in comune con esse, debbano esser colpiti dalla scomunica e
che non possano esser assolti fino a quando non obbediranno realmente
all’ammonizione fatta.
Se poi, incuranti delle censure, rimanessero nel concubinato per un anno,
l’ordinario proceda severamente contro di essi, secondo la qualità del delitto.
Quanto a quelle donne, - siano esse maritate o nubili - che vivono
pubblicamente con gli adulteri o concubinari, se esse, ammonite tre volte, non
obbediranno, siano gravemente punite dagli ordinari dei luoghi, d’ufficio,
anche senza che qualcuno lo richieda, a seconda della colpa, e siano cacciate
dalla città o dalla diocesi, se questo sembrerà opportuno agli stessi ordinari,
chiamando in aiuto, se necessario, il braccio secolare. Le altre pene stabilite
contro gli adulteri e i concubinari rimarranno in vigore.
Capitolo IX
Gli affetti terreni e le passioni, spessissimo accecano tanto gli occhi
della mente dei signori temporali e delle autorità, da costringere con minacce
e pene uomini e donne della loro giurisdizione - specie se ricchi e se hanno la
speranza di un grande eredità - a contrarre il matrimonio contro loro volontà
con quelli che gli stessi signori e magistrati impongono loro.
E poiché è sommamente empio che sia violata la libertà del matrimonio e che
le ingiustizie nascano proprio da coloro, da cui si dovrebbe attendere l’esatta
osservanza delle leggi, il santo sinodo comanda a tutti - di qualsiasi grado,
dignità e condizione - sotto pena di scomunica ipso facto, di non voler
impedire in nessun modo, direttamente o indirettamente, ai loro sudditi o a
qualsiasi altro, di contrarre liberamente matrimonio.
Capitolo X
Dall’avvento del Signore nostro Gesù Cristo fino al giorno dell’epifania, e
dal mercoledì delle ceneri all’ottava di Pasqua compresa, il santo sinodo dispone
che tutti osservino le antiche proibizioni delle nozze solenni. Negli altri
tempi, permette che esse possano celebrarsi solennemente; ma i vescovi faranno
in modo che esse siano celebrate con quella moderazione e dignità che il rito
comporta: il matrimonio, infatti, è cosa santa e dev’essere trattato
santamente.
Decreto di riforma.
Lo stesso santo sinodo, proseguendo la materia della riforma, dispone che
nella presente sessione si debba stabilire quanto segue.
Canone I
Se in ogni grado della chiesa bisogna far in modo con provvida
consapevolezza che nella casa del Signore niente sia disordinato, né fuori
posto, molto maggiormente bisogna far in modo di non errare nella elezione di
colui che viene costituito al di sopra di ogni grado: infatti lo stato e
l’ordine di tutta la famiglia del Signore sarà diverso, se quello che si
richiede nelle membra verrà a mancare nel capo (385).
Quindi, benché altrove (386) il santo sinodo abbia dato alcune utili
prescrizioni riguardo a coloro che devono esser promossi alle chiese cattedrali
e superiori, crede, tuttavia, che questo ufficio sia tale, che se si
considerasse in proporzione della sua grandezza, non sembrerebbe mai abbastanza
tutelato. Il concilio quindi stabilisce che non appena una chiesa si rende
vacante, sia in pubblico che in privato si rivolgano a Dio suppliche e
preghiere. Preghiere e suppliche siano indette anche dal capitolo per tutta la
città e per tutta la diocesi, perché il clero e il popolo possano impetrare da
Dio un buon pastore.
Inoltre, pur non innovando nulla, su questo argomento per il presente stato
dei tempi, esorta ed ammonisce tutti quelli che hanno in qualsiasi modo per
concessione della santa sede, o anche diversamente, titolo a intervenire nella
promozione dei futuri prelati perché si ricordino, prima di ogni altra cosa,
che essi non possono fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza
dei popoli, che procurare che vengano promossi pastori buoni e adatti a
governare la chiesa. Li ammonisce anche che essi, divenendo partecipi dei
peccati degli altri, peccano gravemente, se non procureranno diligentemente che
vengano scelti a governare quelli che essi stimano più degni e più utili alla
chiesa, mossi non da preghiere, da umano affetto o dai suggerimenti di chi
briga, ma dai loro meriti: quelli nati da legittimo matrimonio e che presentano
una vita, un’età, una dottrina e tutte le altre qualità, che sono richiesti dai
sacri canoni e dai decreti di questo sinodo Tridentino.
E poiché nell’assumere le informazioni - serie e utili - degli uomini
onesti e dotti su tutte queste qualità, non si può avere un modo dappertutto
uniforme, data la varietà delle nazioni, dei popoli e dei costumi, il santo
concilio comanda che nel sinodo provinciale - che il metropolita deve tenere -
sia prescritto per ogni luogo e provincia un proprio schema per l’esame,
l’inchiesta o l’istruttoria che si deve fare, da approvarsi dal santissimo
pontefice romano, secondo l’utilità dei luoghi. In tal modo quando, poi, questo
esame o inchiesta sulla persona da promuoversi è stata completata, sia redatta
in atto pubblico e con l’insieme delle testimonianze e la professione di fede
da essa fatta, sia senz’altro trasmessa al più presto al pontefice romano,
affinché lo stesso sommo pontefice, dopo aver preso completa visione di tutta
la pratica e delle persone, possa più utilmente provvedere per mezzo loro alle
chiese - se saranno trovati adatti - per l’utilità del gregge del Signore.
Inoltre, tutte le ricerche, le informazioni, le testimonianze, le prove di
qualsiasi natura, che si sono potute raccogliere sulle qualità di colui che
dev’essere promosso e sullo stato della chiesa, da qualsiasi persona, anche
nella curia romana, vengano esaminate diligentemente da un cardinale che poi ne
farà la relazione in concistoro e da tre altri cardinali; la relazione sia
confermata dalla firma del cardinale relatore e dei tre cardinali. In essa
ciascuno dei quattro cardinali affermi separatamente, che, usata accurata
diligenza, ha trovato le persone, che devono essere promosse, fornite delle
qualità richieste dal diritto e da questo santo sinodo, e di avere la
persuasione - a rischio dell’eterna salute - che essi sono adatti ad esser
messi a capo delle chiese. Fatta poi la relazione in un primo concistoro,
perché frattanto con più matura riflessione si possa giungere ad una più
profonda conoscenza della inchiesta, si differisca il giudizio ad altro
concistoro, a meno che al pontefice non sembri opportuno fare diversamente.
Stabilisce, inoltre, lo stesso concilio che tutte e singole le prescrizioni
che sono state emanate, altre volte, nello stesso sinodo, per quanto riguarda
la vita, l’età, la dottrina e le altre qualità dei vescovi che dovranno essere
eletti, debbano osservarsi anche nella creazione dei cardinali della santa
chiesa romana, anche se fossero solo diaconi, e che il pontefice romano, per
quanto possibile, eleggerà da tutte le nazioni della cristianità, a seconda che
li troverà adatti.
Da ultimo lo stesso sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che
travagliano la chiesa, non può non ricordare che niente è più necessario alla
chiesa di Dio che il pontefice romano mostri quella sollecitudine che in forza
del suo ufficio deve a tutta la chiesa specialmente nello scegliere solo dei
cardinali eccellenti e nel mettere a capo delle singole chiese pastori ottimi e
adatti. Ciò con tanta maggior ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo,
gli chiederà conto del sangue di quelle sue pecore che dovessero perire a causa
del cattivo governo di pastori negligenti e immemori del loro ufficio.
Canone II
Se i concili provinciali in qualche posto sono stati trascurati, vengano
ripresi per regolare i costumi, correggere le colpe, comporre le controversie,
e per le altre cose permesse dai sacri canoni.
Perciò i metropoliti stessi, - o se essi ne fossero legittimamente
impediti, il coepiscopo più anziano, - almeno entro
un anno dalla fine del presente concilio, e, in seguito, almeno ogni tre anni,
non trascuri di riunire il sinodo della sua provincia, dopo l’ottava della
Pasqua del nostro signore Gesù Cristo, o in altro tempo più comodo, secondo
l’usanza della provincia. Ad esso devono assolutamente partecipare tutti i
vescovi e gli altri che per diritto o per consuetudine sono obbligati ad
intervenirvi, eccettuati quelli, soltanto, che dovrebbero attraversare il mare
con immediato pericolo.
Al di fuori di tale occasione i vescovi comprovinciali non siano più
costretti, contro la loro volontà, a recarsi alla chiesa metropolitana col
pretesto di qualsiasi consuetudine. Similmente i vescovi che non dipendono da
nessun arcivescovo, una volta per sempre scelgano un metropolita vicino, al cui
sinodo provinciale siano tenuti a partecipare con gli altri, ed osservino e
facciano osservare quelle decisioni che vi fossero state prese. In tutte le
altre cose, la loro esenzione e i loro privilegi siano sani e salvi.
Si celebrino anche, ogni anno, i sinodi diocesani; ad essi dovranno recarsi
anche tutti quegli esenti che, se non fossero esenti avrebbero l’obbligo di
parteciparvi, e che non sono soggetti ai capitoli generali. Quelli che hanno la
cura di chiese parrocchiali o di altre, anche annesse, chiunque essi siano,
dovranno partecipare al sinodo.
I metropoliti, i vescovi e gli altri menzionati sopra che in questi problemi
fossero negligenti, incorreranno nelle pene sancite dai sacri canoni.
Canone III
I patriarchi, i primati, i metropoliti e i vescovi non manchino di visitare
personalmente la propria diocesi; se ne fossero legittimamente impediti, lo
facciano per mezzo del loro vicario generale o di un visitatore. Se ogni anno
non potessero visitarla completamente per la sua estensione, ne visitino almeno
la maggior parte, in modo tale, però, che nel giro di due anni, o personalmente
o per mezzo dei loro visitatori, terminino di visitarla.
I metropoliti, visitata completamente la propria diocesi, non visitino le
chiese cattedrali e le diocesi dei loro comprovinciali, se non per un motivo,
conosciuto e approvato nel concilio provinciale. Gli arcidiaconi, i decani e
gli altri inferiori, in quelle chiese in cui fino ad ora hanno usato fare
legittimamente la visita, in avvenire potranno farla solo personalmente, con un
notaio e col consenso del vescovo.
Anche i visitatori che devono essere scelti dal capitolo, - dove il capitolo
ha diritto di visita, - devono prima essere approvati dal vescovo. Ma non
perciò il vescovo, o, se egli fosse impedito, il suo visitatore, non avranno il
diritto di visitare le stesse chiese per proprio conto. Anzi gli arcidiaconi e
gli altri inferiori saranno tenuti a presentargli entro un mese la relazione
della visita fatta e a mostrargli le deposizioni dei testi e tutti gli atti.
Ciò, non ostante qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, qualsiasi
esenzione e privilegio.
Scopo principale di tutte queste visite sia quello di portare la sana e
retta dottrina, dopo aver fugato le eresie; di custodire i buoni costumi e
correggere quelli corrotti; di entusiasmare il popolo, con esortazioni e
ammonizioni, per la religione, la pace, la rettitudine; e di stabilire tutte
quelle altre cose che, secondo il luogo, il tempo, l’occasione, e la prudenza
dei visitatori, possono portare un frutto ai fedeli.
E perché queste cose possano avere più facilmente esito felice, tutti
quelli che abbiamo nominato ed a cui spetta la visita, sono esortati a tenere
verso tutti paterna carità e zelo cristiano. Contenti, quindi, di un numero
modesto di cavalli e di servitori, cerchino di portare a termine la visita al
più presto possibile e tuttavia con la dovuta diligenza. E intanto facciano in
modo di non esser di peso e di aggravio a nessuno con spese inutili; e non
prendano nulla, né essi, né qualcuno dei loro, come diritto di visita, anche
per visite a legati per usi pii, - fuorché quello che è loro dovuto di diritto
per lasciti pii, o per qualsiasi altro titolo, né denaro, né regali di
qualsiasi genere, anche se in qualsiasi modo vengano offerti, non ostante
qualsiasi consuetudine, anche immemorabile.
Si eccettuano, tuttavia, le spese per il vitto, che dovranno essere
sostenute per loro e per quelli che li accompagnano in modo frugale e moderato,
e solo per le necessità del tempo e non oltre. Si lascia tuttavia alla libera
scelta di quelli che sono visitati, di dare una somma di denaro secondo quanto
erano soliti pagare, ovvero di offrire il sostentamento accennato, salvo il
diritto delle antiche convenzioni stabilite con i monasteri ed altri luoghi pii
e con le chiese non parrocchiali, che deve rimanere intatto.
In quei luoghi e province dove vi è la consuetudine che i visitatori non
ricevano né il mantenimento, né denaro, né alcun’altra cosa, ma che si faccia
tutto gratuitamente, vi si osservi questa consuetudine.
Che se per caso qualcuno (Dio non voglia!) in tutti i casi suddetti osasse
prendere qualche cosa di più, questi, oltre alla restituzione del doppio entro
un mese, sia colpito anche con altre pene, secondo la costituzione del concilio
generale di Lione Exigit (387) e con altre
ancora nel sinodo provinciale, a giudizio del sinodo, senza speranza di
perdono.
I patroni non pretendano in nessun modo di ingerirsi nell’amministrazione
dei sacramenti; né si immischino nella visita agli ornamenti della chiesa o nei
proventi dei beni immobili o delle fabbriche, se non nella misura che compete
ad essi in forza della costituzione e della fondazione; attendano, invece, a
queste cose i vescovi stessi. E procurino che i redditi delle fabbriche siano
spesi in usi necessari ed utili per la chiesa, come ad essi sembrerà più
conveniente.
Canone IV
Il santo sinodo, desiderando che l’ufficio della predicazione, che è il
principale dovere dei vescovi, venga esercitato quanto più frequentemente è
possibile per la salvezza dei fedeli, adattando meglio alle necessità dei tempi
presenti i canoni emanati un tempo su questo argomento sotto Paolo III (388),
di felice memoria, comanda che essi espongano le sacre scritture e la legge
divina: nella propria chiesa, personalmente, o, se ne fossero legittimamente
impediti, mediante persone assunte per la predicazione, nelle altre chiese di
città o della diocesi per mezzo dei parroci, o, qualora questi ne fossero
impediti, per mezzo di altri da designarsi dal vescovo, a spese di quelli che
sono tenuti o sono soliti accollarsi queste spese, almeno tutte le domeniche e
nelle feste solenni, durante la quaresima e l’avvento del Signore, ogni giorno,
o almeno tre volte la settimana, se lo credono opportuno, ed inoltre ogni volta
che ciò possa esser stimato utile.
Il vescovo ammonisca diligentemente il popolo che ognuno è tenuto a recarsi
nella propria parrocchia, se può farlo facilmente, per ascoltare la parola di
Dio. Nessun secolare o regolare osi predicare - anche nelle chiese del suo
ordine - qualora il vescovo fosse contrario. Gli stessi vescovi avranno anche
cura che almeno nei giorni di domenica e negli altri festivi in ogni parrocchia
i bambini siano diligentemente istruiti da chi ne ha il dovere, nei rudimenti
della fede e in ciò che riguarda l’obbedienza a Dio e ai genitori. Se sarà
necessario li costringeranno anche con le censure ecclesiastiche. Tutto ciò,
non ostante i privilegi e le consuetudini. Nelle altre cose, conservino la loro
forza le disposizioni che sono state emanate sotto lo stesso Paolo III sul
dovere della predicazione.
Canone V
Le cause criminali più gravi contro i vescovi, - anche di eresia (Dio non
voglia!) -, che importino la deposizione o la privazione, siano trattate e
portate a conclusione solo dal romano pontefice. Se poi si trattasse di una
causa che necessariamente debba essere istruita fuori della cuna romana, non
sia affidata a nessuno, fuorché a metropoliti o a vescovi, scelti dal papa.
Questo sia un mandato speciale e sia firmato dallo stesso sommo pontefice.
Esso non conferisca mai un potere più ampio di quello di ricostruire il solo
fatto, e di istruire il processo, che manderà subito al romano pontefice,
riservando a lui solo la sentenza definitiva. Quanto al resto, si osservino da
tutti le norme stabilite un tempo sotto Giulio III (389), di felice memoria, su
questo argomento, e la costituzione emanata sotto Innocenzo III, nel concilio
generale: Qualiter et quando (390), che
il santo sinodo rinnova. Le cause criminali minori dei vescovi, invece, siano
trattate e concluse solo nel concilio provinciale o da persone scelte dal
concilio provinciale.
Canone VI
In tutti i casi di irregolarità e di sospensione che hanno origine da
delitto occulto - eccettuato quello che deriva da omicidio volontario e gli
altri portati dinanzi al foro contenzioso - sia permesso ai vescovi dispensare;
così pure sia lecito ad essi assolvere gratuitamente nel foro della coscienza
qualsiasi colpevole, a loro soggetto, personalmente, nella propria diocesi, o
per mezzo del vicario, da designarsi a ciò con speciale mandato, in qualsiasi
caso occulto, anche in quelli riservati alla santa sede, imposta, naturalmente,
una salutare penitenza. La stessa facoltà sia loro concessa, ma non ai loro
vicari, nel delitto di eresia, nello stesso foro della coscienza.
Canone VII
Perché il popolo fedele riceva i sacramenti con maggiore riverenza e
devozione dell’anima, il santo sinodo comanda a tutti i vescovi che non solo
quando questi sacramenti devono essere amministrati da loro, personalmente,
spieghino, prima, la loro efficacia e la loro utilità, secondo l’intelligenza
di chi li riceve, ma facciano in modo che la stessa cosa si faccia piamente e
prudentemente dai singoli parroci, anche in lingua volgare, se necessario e se
si può fare senza incomodo.
Ciò venga fatto secondo la forma che prescriverà il sinodo nella catechesi
dei singoli sacramenti, che i vescovi avranno cura di far tradurre in lingua
volgare e di far esporre al popolo da tutti i parroci. Durante la santa messa,
inoltre, o nella celebrazione delle sacre funzioni, spieghino in volgare nelle
singole feste o solennità, la parola di Dio e le esortazioni alla salvezza e si
sforzino di inciderla nel cuore di tutti (lasciate da parte le questioni
inutili), e di istruirli nella legge del Signore.
Canone VIII
L’apostolo ammonisce che quelli che mancano pubblicamente, devono essere
pubblicamente corretti (391). Perciò, quando qualcuno commette un delitto
pubblicamente e alla presenza di molti, per cui non si può dubitare che altri
siano stati offesi e scossi dallo scandalo, bisogna imporre pubblicamente a
costui una penitenza proporzionata, secondo la gravità della colpa, sicché con
la testimonianza della sua punizione riporti sulla retta via quelli che con il
suo esempio aveva spinto ad agire perversamente. Il vescovo, tuttavia, potrà
commutare questo genere di penitenza pubblica in altro, occulto, quando questo
gli sembrasse più adatto.
In tutte le chiese cattedrali, inoltre, - dove ciò si può fare senza
difficoltà - sia istituito dal vescovo un penitenziere unendo a tale funzione
una prebenda di prossima vacanza. Questi sia maestro, dottore, licenziato in
teologia o in diritto canonico, abbia quarant’anni; e ad ogni modo, sia il più
idoneo che si possa trovare, considerata la qualità del luogo. Quando egli
ascolterà, in chiesa, le confessioni, sia considerato presente al coro.
Canone IX
Le norme che un tempo sono state emanate sulla diligenza che i vescovi
devono usare nella visita dei benefici, anche esenti, sotto Paolo III, di
felice memoria (392), e, recentemente, sotto il beatissimo signore nostro Pio
IV (393), in questo stesso concilio, siano osservate anche per quanto riguarda
le chiese secolari, che si dicono non essere in nessuna diocesi. Esse, quindi,
saranno visitate dal vescovo, la cui chiesa cattedrale è la più vicina (se ciò
risulta), altrimenti da colui, che una volta per sempre sia stato eletto nel
concilio provinciale dal prelato di quel luogo, come delegato della sede
apostolica. Non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche
immemorabile.
Canone X
Perché i vescovi possano mantenere più facilmente nella sottomissione e
nell’obbedienza il popolo che essi governano, in tutto ciò che riguarda la
visita e la correzione dei costumi dei loro sudditi, abbiano il diritto e il
potere - anche come delegati della sede apostolica - di comandare, regolare,
punire ed eseguire, conforme alle norme dei sacri canoni, quelle cose che,
secondo la loro prudenza, sembreranno loro necessarie all’emendazione e
all’utilità dei loro sudditi.
In quei problemi, inoltre, che riguardano la visita o la correzione dei
costumi (394), né l’esenzione, né proibizione alcuna, né appello o querela,
anche se interposta presso la sede apostolica, potranno impedire o sospendere
in alcun modo l’esecuzione di quanto è stato da loro comandato, stabilito,
giudicato.
Canone XI
Poiché si deve costatare che i privilegi e le esenzioni, che per vari motivi
vengono concessi a molti, producono oggi una certa confusione nella
giurisdizione dei vescovi, e danno agli esenti occasione di una vita rilassata,
il santo sinodo dispone che, se qualche volta si crederà opportuno per motivi
giusti, gravi, e in qualche modo necessari, insignire qualcuno dei titoli
d’onore del protonotariato, dell’accolitato, di conte palatino, di cappellano
del re, e di altri titoli simili, sia nella curia romana che fuori di essa; e
così pure oblati o come addetti a qualche monastero o col nome di inservienti
delle milizie o dei monasteri, degli ospedali, dei collegi, o con qualsiasi
altro titolo, si deve ritenere che con questi privilegi in nulla si detrae agli
ordinari. Sicché quelli cui sono stati già concessi o verranno concessi in
futuro tali privilegi, saranno pienamente soggetti in ogni cosa agli stessi
ordinari, come delegati delle sede apostolica, e per quanto riguarda i
cappellani regi, secondo la costituzione di Innocenzo III Cum capella (395). Saranno eccettuati coloro che
attualmente servono nei luoghi predetti o prestano servizio nelle stesse
milizie e risiedono nei loro recinti e case, e vivono sotto la loro obbedienza,
e anche quelli che legittimamente e secondo la regola delle stesse milizie
abbiano fatto la professione che, però, deve constare all’ordinario.
Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio, anche dell’ordine di S.
Giovanni di Gerusalemme e di altre milizie.
Quanto ai privilegi che sogliono competere a quelli che risiedono nella
curia romana in forza della costituzione di Eugenio (396) o della loro
appartenenza alla casa di cardinali, essi non riguardano quelli che hanno dei
benefici ecclesiastici; a motivo di questi benefici costoro restino soggetti
alla giurisdizione degli ordinari. Non ostante qualsiasi proibizione.
Canone XII
Poiché le dignità, nelle chiese, specie cattedrali, sono state istituite
per conservare ed accrescere la disciplina ecclesiastica e perché quelli che le
hanno si distinguessero nella pietà, fossero di esempio agli altri e aiutassero
i vescovi con l’adempimento del loro dovere, giustamente quelli che sono
chiamati a ricoprirle, devono essere tali da rispondere al loro ufficio.
Nessuno, quindi, in avvenire, venga promosso a qualsiasi dignità, cui sia
annessa la cura delle anime, se non ha raggiunto almeno il venticinquesimo anno
di età, e, vissuto già nell’ordine clericale, non sia ragguardevole per la
dottrina - necessaria per eseguire il proprio ufficio - e per la integrità dei
costumi, secondo la costituzione di Alessandro III, promulgata nel concilio
Lateranense: Cum in cunctis (397).
Anche gli arcidiaconi, che sono detti occhi dei vescovi, siano, in tutte le
chiese, dove è possibile, maestri in teologia, dottori e licenziati in diritto
canonico.
Alle altre dignità o personati, cui non è annessa la cura delle anime,
siano chiamati quei chierici che, idonei sotto ogni altro aspetto, non abbiano
meno di ventidue anni.
Quelli, inoltre, che sono provvisti di qualsiasi beneficio che comporti la
cura delle anime, sono tenuti, almeno entro i due mesi dalla presa di possesso,
a fare nelle mani del vescovo, o, se questi ne fosse impedito, dinanzi al suo
vicario generale o ad un suo officiale, la pubblica professione della loro
retta fede. Promettano anche e giurino di rimanere nell’obbedienza della chiesa
romana.
Quelli, invece, che sono stati provvisti di canonicati e dignità in chiese
cattedrali, sono tenuti a far ciò non solo dinanzi al vescovo o ad un suo
rappresentante, ma anche in capitolo.
Nessuno, inoltre, d’ora innanzi, sia ricevuto ad una dignità, ad un
canonicato, ad una porzione, se non sia già costituito in quell’ordine sacro
che è richiesto da tale dignità, prebenda o porzione, o sia in tale età, che
entro il tempo stabilito dal diritto e da questo santo sinodo (398), possa
ricevere l’ordine stesso.
In tutte le chiese cattedrali, poi, tutti i canonicati e porzioni abbiano
annesso l’ordine del presbiterato, del diaconato o del suddiaconato. Col
consiglio del capitolo, poi, il vescovo designi e stabilisca, come gli sembrerà
meglio, a quale ufficio ciascun ordine debba essere annesso; e lo faccia in tal
modo, che almeno la metà siano presbiteri, gli altri diaconi o suddiaconi. Dove
vi fosse la consuetudine più lodevole che la maggior parte o tutti siano
presbiteri, sia osservata senz’altro.
Questo santo sinodo esorta anche a far sì, che in quelle province dove si
può facilmente realizzare, tutte le dignità e almeno metà dei canonicati, nelle
chiese cattedrali e nelle collegiate insigni, siano conferiti solo a maestri o
dottori, o anche ai licenziati in teologia o diritto canonico.
A quelli, inoltre, che nelle stesse cattedrali o collegiate hanno dignità,
canonicati, prebende o porzioni non sia lecito essere assenti ogni anno per più
di tre mesi, in forza di qualsiasi statuto, o consuetudine, salve le
costituzioni di quelle chiese che richiedono un tempo più lungo nel servizio.
In caso contrario ciascuno il primo anno sia privato della metà dei frutti che
ha percepito in ragione della prebenda e della residenza. Se poi mostrerà la
stessa negligenza, sia privato di tutti i frutti che in quell’anno ha
percepito. Crescendo la loro contumacia, si proceda contro di essi conforme
alle prescrizioni dei sacri canoni.
Per quanto riguarda le distribuzioni, le ricevano solo quelli che sono
stati presenti alle ore stabilite. Gli altri, senza possibilità di intesa e di
remissione, ne siano privati, secondo il decreto di Bonifacio VIII: Consuetudinem (399), che il santo sinodo intende
ripristinare. Tutto ciò, non ostante qualsiasi statuto o consuetudine.
Tutti poi siano obbligati a compiere i divini uffici da loro stessi, e non
per mezzo di altri, ad assistere e a servire il vescovo quando celebra e compie
altri uffici pontificali; e così pure a lodare con riverenza, chiaramente e con
devozione in coro, istituito per salmeggiare il nome di Dio con inni e canti.
Indossino sempre, inoltre, un vestito decente, sia nella chiesa che fuori.
Si astengano da cacce illecite, da uccellagioni, da
danze; si tengano lontani dalle osterie e dai giuochi e mostrino quella
integrità di costumi, per cui a ragione possano esser chiamati il senato della
chiesa.
Quanto alle altre cose necessarie, che riguardano la dovuta disciplina nei
divini uffici, il giusto modo di cantare e di salmodiare, il modo prescritto di
andare e rimanere in coro, ed inoltre tutto ciò che riguarda i ministri della
chiesa e altre cose simili, penserà il sinodo provinciale a prescrivere a
ciascuno la propria forma, a seconda dell’utilità di ciascuna provincia e
secondo i suoi usi. Nel frattempo il vescovo con non meno di due canonici, di
cui uno scelto da lui, l’altro dal capitolo, potrà provvedere in quelle cose,
che sembreranno necessarie.
Canone XIII
Poiché molte chiese cattedrali hanno redditi tanto tenui e sono così
piccole, da non essere assolutamente adeguate alla dignità vescovile, né alla
necessità delle chiese, il concilio provinciale, dopo aver chiamato quelli cui
la cosa interessa, esamini e consideri diligentemente quali siano quelle che,
per la loro piccolezza e inconsistenza sia necessario unire alle diocesi vicine
o far in modo che aumentino i loro proventi. Redatto su ciò un documento, lo si
mandi al sommo pontefice romano; basandosi su di esso, egli, secondo la sua
prudenza e secondo quanto gli sembrerà doversi fare, unirà le più piccole fra
di loro o ne aumenterà i frutti con qualche aggiunta.
Intanto, fino a che queste pratiche non abbiano il loro effetto, il sommo
pontefice romano potrà provvedere a quei vescovi che hanno bisogno di
sovvenzioni per la povertà della loro diocesi con qualche beneficio, purché non
abbia cura d’anime, e non si tratti di dignità, di canonicati, di prebende, di
monasteri, in cui sia viva l’osservanza della regola, o che siano soggetti ai
capitoli generali, e a determinati visitatori.
Anche nelle chiese parrocchiali, i cui frutti siano ugualmente tanto scarsi
da non potersi soddisfare agli oneri che hanno, il vescovo farà in modo che -
se quanto abbiamo detto non si potrà ottenere con l’unione dei benefici (non
tuttavia dei regolari), - con l’assegnazione delle primizie e delle decime, con
i contributi delle parrocchie e con le raccolte di denaro, o in altro modo, che
a lui sembri più adatto, si ricavi tanto che possa esser sufficiente alle
necessità del rettore e della parrocchia.
In ogni unione, poi, sia quelle sopra accennate, sia quelle che si
dovessero fare per altri motivi, le chiese parrocchiali non si uniscano mai con
un monastero, con una abbazia, con la dignità, o prebenda di una chiesa
cattedrale, o collegiata, con altri benefici semplici, con ospedali, con
milizie. E quelle che fossero unite, siano riesaminate dagli ordinari, secondo
il decreto un tempo emanato nello stesso sinodo, sotto Paolo III, di felice memoria
(400). Decreto che si osserverà ugualmente anche per le unioni fatte da quel
tempo in poi. Ciò, nonostante qualsiasi termine usato che deve ritenersi come
qui sufficientemente espresso.
Oltre a ciò, in avvenire, tutte quelle chiese cattedrali, il cui reddito
non supera la somma di mille ducati e le chiese parrocchiali, il cui reddito,
secondo il loro vero valore annuo, non supera i cento, non siano aggravate da
alcuna pensione o riserva di frutti.
Anche in quelle città e luoghi, dove le chiese parrocchiali non hanno
confini ben definiti, e i loro rettori non hanno un popolo da reggere, ma
amministrano solo indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo
comanda ai vescovi che, per potere ottenere con una maggiore certezza la salute
delle anime loro affidate, diviso il popolo in parrocchie vere e proprie,
assegnino a ciascuna un proprio parroco permanente, che possa conoscerle, e da
cui soltanto ricevano lecitamente i sacramenti, o provvedano in altro modo
migliore, secondo le esigenze del luogo. E cerchino di fare al più presto la
stessa cosa nelle altre città e luoghi dove non vi sono affatto chiese
parrocchiali. Ciò, non ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche
immemorabili.
Canone XIV
In molte chiese, sia cattedrali che collegiate e parrocchiali, in forza
delle loro costituzioni o per una riprovevole consuetudine, è corrente che
nella elezione, presentazione, nomina, istituzione, conferma, conferimento, o
altra provvista o ammissione al possesso di una chiesa cattedrale o beneficio,
di canonicati e di prebende, o ad una parte dei proventi, o alle distribuzioni
quotidiane, si frappongano certe condizioni o deduzioni dai frutti, certi
pagamenti, promesse e compensi illeciti, o anche quelli che in alcune chiese
sono detti "lucri di turno".
Il santo sinodo detesta queste cose e comanda ai vescovi che proibiscano
quello che, in queste faccende, non viene convertito in uso pio, quegli
ingressi che destano sospetto di simonia, o presentano il carattere di volgare
avarizia. Prendano conoscenza, inoltre, diligentemente, delle loro costituzioni
e consuetudini su questi argomenti, e con eccezione soltanto di quelle che essi
approvano come lodevoli, respingano ed aboliscano tutte le altre, come indegne
e scandalose.
Il santo sinodo stabilisce che quelli che in qualsiasi modo agissero contro
le prescrizioni di questo decreto, siano soggetti alle pene emanate contro i
simoniaci, a quelle dei sacri canoni ed alle varie costituzioni dei sommi
pontefici, che rinnova. Tutto questo, non ostante qualsiasi statuto,
costituzione e consuetudine, anche immemorabile, anche se fossero state
confermate dall’autorità apostolica. Il vescovo, come delegato della sede
apostolica, potrà indagare sulla loro reticenza, falsità e difetto di intenzione.
Canone XV
In quelle chiese cattedrali e collegiate insigni, dove le prebende sono
molte, e, quindi, poco consistenti pur con le distribuzioni quotidiane, così da
non esser sufficienti per la decorosa condizione dei canonici, considerata la
qualità del luogo e delle persone, i vescovi, col consenso del capitolo,
potranno unire ad esse alcuni benefici semplici (mai dei regolari), o, se in
questo modo non si potesse provvedere, ne sopprimano qualcuna, col consenso dei
patroni - se sono di diritto di patronato dei laici, - applicandone i frutti e
i proventi alle distribuzioni quotidiane delle altre prebende e le riducano di
numero, facendo in modo, però, che ne rimangano tante, da poter esser
sufficienti comodamente alla celebrazione del culto divino e alla dignità della
chiesa. Ciò non ostante qualsiasi costituzione, privilegio, riserva, generale o
speciale. Né le predette unioni o soppressioni potranno esser annullate o
impedite da qualsiasi provvista, anche in forza di una rinunzia o da qualsiasi
altra deroga o sospensione.
Canone XVI
Durante la sede vacante il capitolo - se ha l’ufficio di percepire i frutti
- stabilisca uno o più economi, fidati e diligenti, che si occupino delle cose
ecclesiastiche e dei proventi, e rendano ragione, a suo tempo, a colui cui
spetta. Così pure sia tenuto ad eleggere un officiale o vicario entro gli otto
giorni dalla morte del vescovo e a confermarlo, se già vi fosse; sia dottore o
almeno licenziato in diritto canonico, o, in ogni caso e per quanto è
possibile, adatto. Se si facesse diversamente, questa designazione sia devoluta
al metropolita. Se poi la chiesa fosse proprio quella metropolitana, o se fosse
esente, e il capitolo (come è stato accennato) fosse negligente, allora il più
anziano dei vescovi suffraganei, se si tratta della chiesa metropolitana, e il
più vicino, se si tratta di una chiesa esente, hanno il potere di costituire un
economo e un vicano adatti.
Il vescovo promosso a quella chiesa vacante, poi, tra le altre cose che gli
spettano, esiga che gli si renda ragione dallo stesso economo, dal vicario e da
qualsiasi altro officiale ed amministratore, costituito dal capitolo o da altri
in suo luogo durante la sede vacante, anche se fossero membri dello stesso
capitolo, ragione dei loro uffici, della giurisdizione, dell’amministrazione e
di qualsiasi altro loro incarico. E potrà anche punire quelli che nel loro
ufficio o amministrazione avessero mancato, anche se questi officiali, reso già
il loro rendiconto, avessero ottenuto dal capitolo o da quelli che da esso fossero
stati deputati, l’assoluzione o la liberazione. Il capitolo sarà anche tenuto a
render conto allo stesso vescovo degli scritti che appartengono alla chiesa, se
ne fossero giunti al capitolo.
Canone XVII
La disciplina ecclesiastica resta sconvolta, quando uno dei chierici occupa
più uffici. Perciò sapientemente fu disposto dai sacri canoni che nessuno
dovesse essere incardinato in due chiese (401). Ma molti, mossi da un
riprovevole desiderio di guadagno, ingannando se stessi (non Dio!) non si
vergognano di eludere con varie arti quelle prescrizioni che saggiamente sono
state emanate e di tenere più benefici insieme.
Per questo il santo sinodo, desiderando tornare alla dovuta disciplina nel
governo delle chiese, con il presente decreto - che dovrà essere osservato da
qualsiasi persona, di qualsiasi titolo, anche se fosse insignita dell’onore del
cardinalato, - stabilisce che in futuro possa essere conferito a ciascuno un
solo beneficio ecclesiastico. Se questo non fosse sufficiente all’onesto
sostentamento di colui cui viene assegnato, si potrà conferirgliene un altro
semplice, purché l’uno e l’altro non esigano la residenza personale.
Queste norme dovranno riguardare non solo le chiese cattedrali, ma anche tutti
gli altri benefici, sia secolari che regolari, anche se fossero dati solo in
commenda, di qualsiasi titolo e qualità essi siano.
Quelli poi che presentemente hanno più chiese parrocchiali, o ne hanno una
cattedrale e l’altra parrocchiale, nonostante qualsiasi dispensa e qualsiasi
unione a vita, siano senz’altro costretti a lasciare, entro lo spazio di sei
mesi, le altre chiese parrocchiali, tenendosi soltanto la chiesa parrocchiale,
o quella cattedrale. In caso diverso, tanto le chiese parrocchiali, quanto
tutti gli altri benefici, che hanno ipso iure dovranno considerarsi
vacanti, e, come vacanti, siano conferiti liberamente ad altri idonei; e quelli
che prima avevano tali benefici, dopo quel tempo non potranno goderne i frutti
con tranquillità di coscienza. Desidera, tuttavia, il santo sinodo, che si
provveda alle necessita di quelli che rinunziano, in modo adatto, come sembrerà
meglio al sommo pontefice.
Canone XVIII
Giova assai alla salute delle anime essere governate da parroci degni e
adatti. E perché ciò possa esser fatto più diligentemente e più rettamente il
santo sinodo stabilisce, che quando per morte o per rinunzia una chiesa
parrocchiale si rende vacante - anche se la cura spetta alla chiesa o al
vescovo ed è amministrata da una o più persone; anche nelle chiese dette
patrimoniali o recettive, in cui il vescovo è solito dare la cura delle anime
ad uno o più (persone tutte che sono tenute a sostenere l’esame di cui sotto) -
anche se la stessa chiesa parrocchiale fosse riservata, sia in modo generale
che speciale, anche in forza di qualche indulto o privilegio in favore di
cardinali della santa chiesa romana, di abati, o di capitoli, il vescovo, non
appena ha avuta notizia della vacanza, debba nominare, se necessario, un
vicario adatto, con l’assegnazione di un’adeguata parte di frutti, a suo
giudizio, il quale sostenga gli oneri della stessa chiesa, fino a che non sia
stato nominato il rettore.
Inoltre, il vescovo e chi ha diritto di patronato, entro dieci giorni od
altro tempo da determinarsi dal vescovo, nomini dinanzi agli esaminatori alcuni
chierici adatti a reggere la chiesa. Sia permesso, tuttavia, anche ad altri, se
conoscessero qualche altro idoneo a questo ufficio, di fare i loro nomi, perché
si possa fare poi una diligente ricerca sull’età, sui costumi, e sulla capacità
di ciascuno. Se poi al vescovo o al sinodo provinciale sembrasse meglio, -
conforme all’uso della regione, - i candidati all’esame siano convocati con
pubblico editto. Passato il tempo stabilito, tutti quelli che sono stati
iscritti, siano esaminati dal vescovo o, se questi fosse impedito, dal vicano
generale e dagli altri esaminatori - che non devono essere meno di tre. Se i
voti di questi fossero pari o singolarmente diversi, il vescovo, o il vicario
potrà aggiungere il suo voto a colui, cui sembrerà più opportuno darlo.
Gli esaminatori vengano presentati ogni anno nel sinodo diocesano dal
vescovo o dal suo vicario almeno in numero di sei e siano di gradimento del
sinodo e tali da ottenere la sua approvazione. Quando si rende vacante una
chiesa, il vescovo ne scelga tre, che assieme a lui facciano l’esame;
verificandosi un’altra vacanza, scelga gli stessi o altri tre fra i sei,
quelli, cioè, che crederà meglio. Questi esaminatori siano maestri, dottori o
licenziati in teologia o in diritto canonico; o anche altri chierici - o
regolari -, anche dei mendicanti o secolari, a ciò particolarmente adatti.
Giurino tutti sui santi vangeli di Dio, che essi, messa da parte qualsiasi
umana considerazione, eseguiranno fedelmente il loro ufficio e si guardino bene
dall’accettare, né prima né dopo, in occasione di questo esame, qualsiasi cosa.
In caso contrario sia essi che gli altri che danno, incorrano nel reato di
simonia, da cui non potranno essere assolti se non con la rinunzia ai benefici
che in qualsiasi maniera, anche prima, avevano; e siano resi inabili per
l’avvenire anche ad altri. Di queste cose, inoltre, siano obbligati a rendere
conto non solo dinanzi a Dio, ma, se fosse il caso, anche nel sinodo
provinciale, da cui, se si venisse a riscontrare che hanno in qualche modo
agito contro il loro dovere, potranno essere puniti gravemente, a suo arbitrio.
Fatto, quindi, l’esame, siano pubblicati i nomi di quelli giudicati idonei,
per età, costumi, dottrina, prudenza e per quelle altre qualità che li rendono
capaci di governare la chiesa vacante; tra questi il vescovo scelga quello che
giudicherà più adatto degli altri. E a lui - non ad altri - sia fatto il
conferimento della chiesa da quegli cui spetta conferirla. Se poi questa fosse di
diritto di patronato ecclesiastico e quindi la nomina appartenesse al vescovo,
e non ad altri, colui che il patrono giudicherà migliore tra i candidati
approvati dagli esaminatori, dovrà presentarsi al vescovo per essere da lui
nominato.
Quando poi la nomina dovesse farsi da altri che non sia il vescovo, allora
il solo vescovo scelga tra i degni il più degno, e il patrono lo presenti a
colui, cui spetta la nomina. Se si trattasse di diritto di patronato di laici,
quegli che sarà presentato dal patrono dovrà essere esaminato dagli stessi
deputati di cui sopra, e non sarà ammesso, se non dopo che sarà stato trovato
idoneo.
In tutti i casi sopraddetti, però, non si provveda alla chiesa per mezzo di
nessun altro, se non attraverso uno dei predetti esaminati e approvati dagli
esaminatori, secondo la norma data. Nessuna devoluzione, o appello - anche se
interposto alla sede apostolica, ai suoi legati, vicelegati,
nunzi, vescovi, metropoliti, primati o patriarchi - potrà impedire o sospendere
l’esecuzione della relazione di questi esaminatori.
In caso diverso, il vicano che il vescovo avesse già assegnato
temporaneamente, di propria iniziativa, alla chiesa vacante o che dovesse
assegnare in seguito, non sia rimosso dalla cura e dal governo di quella
chiesa, fino a che lui o altri, che fosse stato approvato o scelto, come già
detto, non sia stato provvisto. Tutte le provviste o nomine fatte in maniera
diversa da quanto prescrive la forma riferita sopra, devono essere considerate
illegittime.
Non impediranno questo decreto le esenzioni, gli indulti, i privilegi, le
prevenzioni, le nuove provisioni, gli indulti
concessi a qualsiasi università, anche dietro versamento di una certa somma e
qualsivoglia altro impedimento.
Se, tuttavia, i redditi di questa parrocchia fossero così tenui da non
comportare il peso di tutto questo esame; o non vi sia alcuno che cerchi di
sottoporsi a questo esame; o si temesse di suscitare facilmente risse e tumulti
di una certa gravità, per le note fazioni o divisioni che vi sono in alcuni luoghi,
l’ordinario - se in coscienza e col consiglio dei deputati crederà opportuno
agire in tal modo, - omesso questo procedimento, potrà provvedere con un altro
esame privato, osservando tuttavia le prescrizioni già esposte. Se poi il
sinodo provinciale crederà di dover aggiungere od omettere qualche cosa circa
la forma dell’esame, potrà farlo.
Canone XIX
Il santo sinodo stabilisce che i mandati di provvista, e quelle grazie che
si chiamano ‘aspettative’ non si debbano concedere più a nessuno, neppure ai
collegi, alle università ai senati, e ad altre singole persone, neppure a
titolo di indulto, o dietro versamento di una certa somma, o con qualsiasi
altro pretesto; e che a nessuno sia permesso far uso di quelle già concesse.
Non si concedano a nessuno, inoltre, né le riserve mentali, né qualsiasi altra
grazia che riguardi benefici che si renderanno vacanti, né indulti che
riguardino chiese di altri o monasteri, neppure ai cardinali della santa chiesa
romana. Le grazie e gli indulti che fossero stati concessi finora, siano
considerati abrogati.
Canone XX
Tutte le cause che in qualsiasi modo appartengono al foro ecclesiastico -
anche se riguardano i benefici - in prima istanza si svolgano solo dinanzi agli
ordinari locali e siano assolutamente condotte a termine almeno entro un
biennio dalla data dell’inizio della lite. Dopo questo tempo sia lecito alle
parti, o ad una di esse, adire i giudici superiori, naturalmente competenti.
Questi assumano la causa nello stato in cui si trova e cerchino di condurla a
termine al più presto. Prima non siano affidate o avocate ad altri; né vengano
accolti da nessun superiore gli appelli interposti; la loro assegnazione o
inibizione non sia fatta, se non dopo la sentenza definitiva o avente valore
definitivo, il cui onere non possa essere riparato con l’appello contro la
sentenza definitiva.
Si eccettuano, tuttavia, quelle cause che, secondo le prescrizioni
canoniche, devono essere trattate presso la sede apostolica, o quelle che per
un motivo urgente e ragionevole il sommo pontefice romano credesse di dovere
affidare o avocare alla Segnatura con uno speciale rescritto da firmarsi di
propria mano da sua santità.
Le cause matrimoniali e criminali, inoltre, non siano lasciate al giudizio
del decano, dell’arcidiacono o di altri inferiori, anche se sono in visita, ma
solo all’esame e alla giurisdizione del vescovo, anche se tra il vescovo e il
decano o l’arcidiacono o altri inferiori vi sia in pendenza qualche lite, in
qualsiasi istanza, sulla trattazione di queste cause. E se una parte può
davvero provare dinanzi a lui la sua povertà, non sia costretta a condurre
avanti la causa fuori della provincia, né in seconda, né in terza istanza nella
stessa causa matrimoniale, a meno che l’altra parte non sia disposta a
provvedere gli alimenti e a sostenere le spese della lite.
I legati, inoltre, anche a latere, i nunzi, i governatori ecclesiastici, o
altri, qualunque facoltà essi abbiano, non solo non oseranno impedire i vescovi
in tali cause, o privarli in qualche modo della loro giurisdizione, o
disturbarli, ma non dovranno neppure procedere contro i chierici od altre
persone ecclesiastiche, se non dopo che il vescovo richiestone si sia mostrato
negligente. Diversamente, i loro processi o le loro ordinanze non abbiano alcun
valore e siano tenuti alla riparazione del danno che avessero procurato alle
parti.
Inoltre, se qualcuno, nei casi permessi dal diritto, interpone appello o si
lagna di qualche imposizione o, trascorso il biennio di cui sopra, ricorre ad
altro giudice, sia tenuto a trasferire, a sue spese, presso il giudice di
appello tutti gli atti compiuti presso il vescovo, non senza averlo prima
avvertito che qualora volesse dire qualche cosa sulla trattazione della causa,
può significarlo al giudice di appello. Nel caso poi che si presentasse colui
contro il quale si è fatto appello, sia costretto anche lui a pagare la sua
parte delle spese degli atti che sono stati trasferiti, se vorrà servirsene, a
meno che l’uso del luogo non sia diverso, e cioè che l’intera spesa sia a
carico di chi si appella. Il notaio sia obbligato, dietro il dovuto compenso, a
consegnare a chi appella copia degli atti quanto prima, e almeno entro un mese.
Se egli differisse con frode la consegna sia sospeso dall’esercizio del suo
ufficio ad arbitrio dell’ordinario e sia costretto ad una multa doppia di
quanto importi la lite, da dividersi fra colui che si è appellato e i poveri
del luogo.
Quanto al giudice, poi, se anch’egli fosse stato consapevole di questo
impedimento, vi avesse partecipato o si fosse opposto in altro modo a che gli
atti fossero integralmente consegnati a chi si appella entro i termini sia
tenuto alla stessa doppia pena, come detto sopra. Ciò non ostante i privilegi,
gli indulti, gli accordi che obbligano solo quelli che li hanno stipulati, e
qualsiasi altra consuetudine.
Canone XXI
Il santo sinodo, desiderando che in futuro dai decreti da esso emanati non
sorga alcun motivo di dubbio, spiegando le parole: "Quegli argomenti che
su proposta dei legati e presidenti, sembreranno adatti e idonei allo stesso
sinodo a lenire le calamità di questi tempi, a sedare le controversie
religiose, a reprimere le false lingue, a correggere gli abusi dei costumi
corrotti, a ricondurre nella chiesa una pace vera e cristiana", contenute
nel decreto pubblicato nella prima sessione (402), sotto il beatissimo signore
nostro Pio IV, dichiara non essere stata sua intenzione che in forza di queste
parole si cambiasse in qualche parte il consueto modo di procedere dei concili
generali nel trattare le questioni, né che si aggiungesse o si tralasciasse
qualche cosa di nuovo in alcuna questione, rispetto a ciò che fino a questo
momento è stato stabilito dai sacri canoni o dalla prassi dei concili generali.
Decreto per l’indizione della futura sessione.
Il sacrosanto concilio stabilisce, inoltre, e dispone che la prossima
futura sessione debba essere celebrata il giovedì dopo la concezione della
beata vergine Maria, che sarà il nove dicembre prossimo, con facoltà anche di
abbreviare questo termine. In tale sessione si tratterà del sesto capitolo, ora
rinviato, degli altri capitoli della riforma già presentati e di altre
questioni che si riconnettono ad essa. Se poi sembrasse opportuno e il tempo lo
permettesse, si potranno trattare anche alcune dottrine, come sarà proposto a
suo tempo nelle congregazioni.
Note
354. Cfr. Eb 7, 12.
355. Cfr. I Tm 3, 8-10; At 6, 3-6; 21, 8.
356. II Tm 1, 6-7.
357. Ct 6, 3 e 9.
358. Cfr. I Cor 12, 28-29; Ef 4, 11.
359. At 20, 28.
360. Cfr. Gv 10, 1.
361. Cfr. Gv 10, 1-16; 21, 15-17; I e II
Tm; Tt e altri.
362. Cfr. Gv 10, 12-13.
363. Cfr. I Pt 5, 2-4.
364. Sessione VI, cc. 1 e 2 de ref. (v. sopra).
365. Cfr. Ger 48, 10.
366. Cfr. At 1, 24; Sal 7, 10.
367. C. 3, V. 7, i n Extrav. comm. (Fr 2, 1300).
368. C. un., III, 2, in VI (Fr 2. 1019).
369. Sessione VII, c. 10 de ref. (v. sopra).
370. Cfr. Sap 4, 9.
371. Cfr. I Tm 3, 7.
372. Concilio di Calcedonia, c. 6 (v. sopra).
373. Cfr. Gen 8, 21.
374. Concilio di Vienne, c. 17 (COD. 374-376).
375. Gen 2, 23-24 (Mt 19, 5; Ef 5, 31).
376. Mt 19, 6; Mc 10, 8-9.
377. Ef 5, 25.
378. Ef 5, 32.
379. Cfr. Lv 18, 6-18.
380. Cfr. soprattutto Mt 5, 32; 19, 9; Mc 10, 11-12: Lc 16, 18; I Cor 7, 11.
381. Cfr. Mt 7, 7-8; Gc 1, 5 e altri.
382. Cfr. I Cor 10, 13.
383. Cfr. Mt 19, 11-12; I Cor 7, 25-26;
7, 38; Ap 14, 4.
384. Concilio Lateranense IV, c. 51 (v. sopra).
385. Cfr. LEONE I, Ep. 12 (PL 54, 647).
386. Sessione VI, c. 1 de ref.; sessione VII, c. 1;
sessione XXII, c. 2 (v. sopra).
387. Concilio II di Lione, c. 24 (v. sopra).
388. Sessione V, cc. 1-3 de ref. (v. sopra).
389. Sessione XIII, cc. 7-8 de ref. (v. sopra).
390. Concilio Lateranense IV. c. 8 (v. sopra).
391. Cfr. I Tm 5, 20.
392. Sessione VI, c. 4 de ref.; sessione VII. c. 8 de ref. (v. sopra).
393. Sessione XXI, c. 8 de ref. (v. sopra).
394. Sessione XIII, c. 1; sessione XIV, c. 4; sessione XXII, c. I (v. sopra).
395. C. 6, X. V 33 (Friedberg 2, 862).
396. Divina in eminenti, c. 3 V 7 in Extrav.
comm. (Friedberg 2. 1300).
397. Concilio Lateranense III, c. 3 (COD, 212).
398. Sessione VII, c. 12 de ref. (v. sopra).
399. C. un., III, 3, in VI (Friedberg 2, 1019).
400. Sessione VII, c. 6 de ref. (v. sopra).
401. Cfr. sessione VII, c. 2 de ref. (v. sopra).
402. Sessione XVII (v. sopra).